Calano i morti e gli attentati
l'analisi di Maurizio Molinari sulla possibile vittoria americana in Iraq
Testata: La Stampa
Data: 12/11/2007
Pagina: 19
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: Iraq, gli americani stanno vincendo ? - Sono soltanto segnali positivi e potrebbero durare poco
Da La STAMPA del 12 novembre 2007, l'analisi di Maurizio Molinari sui successi della nuova strategia americana in Iraq:

Gli attentati a Baghdad sono calati del 77 per cento e i profughi che ogni mese attraversano i confini siriani si sono ridotti da 20 mila a 600: sono gli ultimi due tasselli di un mosaico di notizie irachene che suggeriscono un complessivo, sensibile miglioramento della sicurezza, consentendo ai comandi militari americani di parlare di «sconfitta di Al Qaeda».
A rendere note le statistiche sulla drastica diminuzione degli atti di terrore nella capitale è stato ieri il premier iracheno, Nuri Al Maliki, secondo il quale «il capitolo della violenza inter-etnica è chiuso» ed ora «i terroristi fuggono verso le nazioni confinanti». La maggiore stabilità di Baghdad è all’origine della riduzione del flusso di profughi verso la Siria, del quale ha dato notizia Damasco spiegando che «il nuovo sistema di visti» concordato con gli Stati Uniti consente «più controlli» limitando le infiltrazioni di guerriglieri jihadisti.
Per comprendere cosa sta avvenendo in Iraq bisogna ascoltare testimoni e protagonisti dei cambiamenti avvenuti in seguito all’arrivo dei rinforzi di 30 mila uomini decisi dal presidente George W. Bush lo scorso gennaio assieme alla nomina del generale David Petraeus alla guida delle truppe americane, che oggi sommano 160 mila soldati. «L’indice da osservare è quello delle vittime - spiega Glenn Kutler, direttore di ICasualties, l’organizzazione indipendente che tiene il conto quotidiano delle violenze - e in ottobre i morti sono stati 39, il numero più basso da marzo 2006, confermando una tendenza al ribasso che dura da quattro mesi, mentre i feriti sono stati 325, il livello più basso dalla fine del 2005, e i morti civili iracheni 905, rispetto agli oltre 2000 registrati fino ad agosto». Il calo più evidente di vittime è avvenuto nella provincia di Anbar, già roccaforte della guerriglia sunnita, dove vi è stato un solo caduto americano ogni settimana rispetto agli almeno 20 di quattro mesi fa. La conseguenza è stata la riapertura dei mercati a Fallujah e Ramadi come anche il miglioramento della stabilità a Baghdad. Steven Hurst, capo della sede dell’Associated Press nella capitale, conferma i dati «raccolti attraverso tutte le fonti disponibili in Iraq» attribuendogli il fatto che «questa città è oggi completamente differente da sei, otto o dieci mesi fa perché la violenza è drasticamente diminuita». Ciò non significa che i pericoli siano scomparsi «ma molto è mutato» assicura Hurst, secondo il quale molto si deve anche al fatto che sunniti e sciiti «sorvegliano le entrate ai rispettivi quartieri impedendo l’ingresso di chi vuole commettere atti di violenza». Per avere un’idea dell’impatto di tutto questo sull’opinione pubblica americana basti pensare che la televisione Pbs, nota per le posizioni molto critiche sull’intervento militare, gli ha dedicato un approfondimento spiegando agli spettatori che «questo è ciò che sta avvenendo».
Per comprendere come si è arrivati alla riduzione delle violenze bisogna leggere l’«Iraq Report» periodicamente confezionato da Kimberly Kagan, presidente dell’«Institute for the Study of War» di Washington e docente all’Istituto di studi strategici dell’Università di Harvard, secondo la quale le ragioni determinanti sono state tre. Primo: l’impiego massiccio dei rinforzi per conquistare le roccaforti di Al Qaeda nel Triangolo sunnita e mantenerne poi il controllo. Secondo: il miglioramento operativo delle forze irachene e l’arruolamento di migliaia di volontari sunniti nelle nuove unità dei volontari denominati «Concerned Citizens» (cittadini preoccupati) grazie alle intese raggiunte fra Petraeus e i capi delle tribù di Anbar e Diyala. Terzo: la scelta della popolazione civile di collaborare attivamente contro Al Qaeda (una media di 20 mila segnalazioni al mese all’intelligence irachena e americana).
«L’arrivo di forze addizionali ha permesso di moltiplicare l’impiego delle truppe in operazioni su larga scala», spiega il generale Raymond Odierno, braccio destro di Petraeus, riferendosi alla tattica che prevede l’invio di un numero soverchiante di uomini e mezzi contro le cellule di Al Qaeda non solo per sconfiggerle, ma anche per trasmettere nella popolazione locale la chiara impressione che i jihadisti non hanno alcuna possibilità di farcela. A questa tattica sono da attribuire gli «oltre 1500 jihadisti eliminati ogni mese» di cui ha parlato Bush la scorsa settimana. Tre successive operazioni militari - Fardh al-Qanoon, Phantom Thunder e Phantom Strike - hanno consentito prima di smantellare le unità jihadiste e poi di inseguirle lì dove tentavano di riorganizzarsi, obbligandole al confronto o alla fuga. Proprio al termine di Phantom Strike Osama bin Laden, a metà ottobre, diffuse un audio in cui rimproverava ai seguaci le «divisioni interne» e i «fallimenti nel proteggere segreti e azioni» ammettendo le difficoltà. Michael Hayden, capo della Cia, ritiene che Al Qaeda sia stata «ferita in Iraq» perché lì «ci troviamo di fronte alla più lunga e costante diminuzione di attacchi registrata», accompagnata da sequestri di armi ed esplosivi che hanno spinto i jihadisti, assicura il generale Joseph Fil, ad «abbandonare Baghdad». Da Hayden a Odierno, da Kutler a Hurst c’è inoltre consenso sulle qualità messe in mostra da Petraeus che, applicando il manuale dell’antiguerriglia che viene studiato a West Point, ha cercato subito di instaurare rapporti diretti con i leader tribali nella convinzione che in ogni conflitto urbano è lo schieramento della popolazione civile ad essere il fattore decisivo.

Di seguito, un'intervista di Molinari al diplomatico americano Richard Murphy:

«E’ troppo presto per parlare di successo americano in Iraq». Richard Murphy, ex ambasciatore Usa in Siria e Arabia Saudita nonché vice segretario di Stato con Reagan, parla al telefono da Riad dove è arrivato per una missione tesa ad appurare i più recenti sviluppi a Baghdad.
Perché è «troppo presto» per giudicare il miglioramento della situazione in Iraq?
«Per due motivi di fondo. Primo: bisogna ancora consolidare forti e capaci forze militari irachene, in grado di fronteggiare future emergenze e di proteggere la stabilità del governo. Secondo: manca ancora una forte coesione fra i leader sunniti, sciiti e curdi che siedono nel governo. Senza questi due risultati, che in gran parte hanno a che vedere più con la politica e la ricostruzione che non con l’uso della forza, gli sviluppi positivi a cui stiamo assistendo in Iraq potrebbero avere vita assai breve. Ciò che resta da fare in Iraq conta assai più di quanto è stato fatto».
Crede alle statistiche del Pentagono sugli sviluppi positivi e che peso gli assegna?
«Vi sono, certo, ma bisogna valutarli con grande prudenza. In estrema sintesi riguardano il fatto che i capi delle tribù sunnite di due province irachene del Nord, Anbar e Diyala, sono arrivati alla conclusione che Al Qaeda è un nemico e su questo terreno hanno raggiunto un’intesa con l’esercito degli Stati Uniti. Ciò che non sappiamo tuttavia è se anche in altre province vi è una tendenza simile, se in queste due province le posizioni dei capi tribali sono reversibili o meno e se Al Qaeda ha in serbo altri piani militari per destabilizzare l’Iraq. Siamo insomma in un momento di passaggio, segnato da una leggera schiarita ma anche dalla permanenza di una forte instabilità politica. Solo un solido accordo politico fra sciiti, sunniti e curdi potrà porvi rimedio. ed a tal fine conta anche il ruolo delle potenze regionali».
Quale ruolo possono avere Iran e Arabia Saudita?
«Entrambi hanno un interesse: non vogliono il manifestarsi di un’instabilità a tal punto grave da obbligarli a inviare le proprie forze armate per ristabilire ordine e sicurezza. Entrambi desiderano dunque un Iraq unito e stabile. L’Iran ha però anche un altro interesse: non vedere la creazione di un Iraq a tal punto forte, militarmente come politicamente, da costituire una minaccia diretta».

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