L'arabo-israeliano che danza nella Compagnia del Kibbutz
e i palestinesi che chiedono la cittadinanza israeliana: cronache da uno Stato che qualcuno definisce "razzista"
Testata:
Data: 08/11/2007
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Autore: Francesca Paci - la redazione
Titolo: Il Billy Elliot palestinese danza in Israele - Sempre più palestinesi vogliono diventare israeliani
Da La STAMPA dell'8 novembre 2007 (pagina 17), un corretto articolo di Francesca Paci.
Ambiguo l'occhiello redazionale: "la vocazione artistica batte i pregiudizi". leggendo l'articolo si capisce il riferimento al sospetto verso la danza, ma chi si ferma alla titolazione può pensare a presunti pregiudizi degli israeliani.

Ecco il testo


Avevo l’età di Billy Elliot quando l’ho visto al cinema. Era il 2001, avevo dieci anni e sapevo che volevo diventare ballerino come lui». Aiman si annoda intorno alle caviglie i lacci delle scarpette con la punta di gesso e, facendo una piroetta, prova l’equilibrio davanti allo specchio. La favola di celluloide del figlio di un minatore innamorato del balletto fino a sfidare l’ironia dei compagni, i pettegolezzi, il padre che l’avrebbe preferito sul ring a rifilare destri poderosi, assomiglia alla sua. Passaporto arabo-israeliano, famiglia islamica, gli amici tifosi del Maccabi Tel Aviv, Aiman Saifa è un ragazzino uguale a migliaia di coetanei, jeans, felpa Nike, snikers, la passione per Harry Potter. Ma invece d’assecondare il babbo taxista che l’immaginerebbe programmatore alla Silicon Valley mediorientale di Herzliya, prende una strada tutta sua. Aiman vuole ballare, come Billy Elliot. E ce la fa: dopo 4 anni di clandestinità debutta con la Compagnia di danza contemporanea del Kibbutz, l’empireo israeliano, 40 ballerine ebree. Lui, uomo, musulmano, è alla ribalta: lieve, flessuoso, una stella.
«Le prime scarpette da danza le ho comprate nel 2003» racconta Aiman tenendo d’occhio l’orologio. L’insegnante l’attende per le sei ore quotidiane d’allenamento, non fa sconti alla celebrità: «Avevo messo da parte i soldi lavorando in un alimentari di Kfar Yasif». Kfar Yasif è un villagio arabo-israeliano di 8 mila anime a nord della Galilea. Popolazione mista, drusi, cristiani, musulmani. Mentalità «antiquata», nota Aiman: «Il negoziante, Mustafà, continuava a chiedermi se fossero per mia sorella. Da queste parti la gente è schematica, un ballerino è automaticamente un omosessuale».
A dispetto d’una tradizione edonista e sensuale, l’islam contemporaneo è sinonimo di machismo, omofobia, mortificazione del corpo. La scelta di Aiman spezza gli schemi mentali: «Quelle scarpette mi confondevano. Sapevo che volevo ballare, ma avevo paura. A sei anni frequentavo un corso di danze folkloriche. Ero bravo. Alla fine della lezione però, mi fermavo a spiare il corso successivo, quello di danza classica riservato alle bambine. Imparavo le piroette e mi cimentavo nella mia stanza».
Le scarpette numero uno sono il suo amuleto, la slitta di Orson Welles in «Quarto Potere». «Da principio parlavo solo con mia madre, Baddun. Avevo provato a raccontare ai compagni che volevo studiare danza classica ma ero diventato lo zimbello, mi chiamavano gay, il mio migliore amico smise di parlarmi. Mi chiusi. Dicevo che la passione per il balletto mi era passata, facevo danza folk e basta, solo mia madre sapeva la verità». Solo Baddun Saifa andava ad applaudirlo pensando a Billy Elliot.
Un giorno tra gli spettatori, accanto a mamma Baddoun, c’è Raba Murkus, sorella della celebre cantante araba-israeliana Amel e direttrice del gruppo di danza del villaggio druso di Shfaram. Raba vede il ragazzino e lo vuole per il suo spettacolo. «Un film», mitizza Amel: «Chiesi il permesso a mia madre e lei lo domandò a mio padre. Pensavo che si sarebbe opposto, invece dopo 4 mesi ballavo su un palco di Haifa». E’ l’estate 2006: anche stavolta in platea c’è solo la parte femminile della famiglia. Ma sono le donne che contano nella vita di Amel. A notarlo ora è Sharon Askenazi, manager della Compagnia del Kibbutz: gli offre di frequentare part-time la scuola fino alla fine del liceo e poi a tempo pieno. Il padre Ashaf, contro il parere di zii e cugini, dice sì. E promette che a dicembre, quando il ragazzo si esibirà al Cairo con il gruppo di Shfaram, non mancherà: «Capisco la diffidenza della gente, anche io se non fosse mio figlio non m’interesserei. Ma il balletto è arte...».
«La storia di Aiman, arabo musulmano che balla tra gli ebrei, dimostra che la danza può compensare la mancanza di parole» osserva Rami Beer, coreografo della Compagnia del Kibbutz. Oggi Aiman non si vergogna più di attraversare il villaggio con un paio di pantcollant e gli occhi truccati per lo spettacolo. Lo chiamano il «Billy Elliot arabo», esorcizzano così la diversità. Un giorno, giura lui, l’anomalia diventerà norma: «Aprirò una scuola di danza maschile, sarà un successo formidabile».

Da pagina 3 del FOGLIO:


Gerusalemme. I palestinesi residenti a Gerusalemme non vogliono l’Autorità nazionale del rais Abu Mazen. Negli ultimi mesi è aumentato notevolmente il numero delle richieste di cittadinanza israeliana da parte di abitanti arabi della Città santa. Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth parla di 3.000 richieste consegnate al ministero dell’Interno negli ultimi quattro mesi. In passato, la cifra era rimasta invariata attorno alle 300 richieste l’anno. Sui 750 mila abitanti di Gerusalemme, un terzo è arabo. Nel 1967, quando Israele conquistò la città, allora sotto sovranità giordana, ai palestinesi fu data la possibilità di ottenere la cittadinanza. La maggior parte rifiutò, preferendo lo status di residente permanente, in possesso di carta d’identità israeliana: garantisce l’accesso all’assistenza pubblica e al sistema sanitario statale israeliano, oltre al libero movimento nel paese. La richiesta di cittadinanza, spiega Yedioth Ahronoth, è considerata dai palestinesi un tradimento della causa nazionale. Eppure, qualcosa sta cambiando, e la ragione è da cercarsi nella preparazione della conferenza internazionale di Annapolis, negli Stati Uniti, a fine novembre. A ottobre, il vicepremier Haim Ramon, davanti alla Knesset, il Parlamento israeliano, ha rotto uno storico tabù: al summit, ha detto, Israele discuterà sul futuro status di Gerusalemme, una delle questioni centrali del conflitto israelo-palestinese, assieme a confini e rifugiati. Ramon ha parlato di dividere la città e del passaggio dei quartieri arabi sotto sovranità dell’Anp. II primo ministro israeliano Ehud Olmert, durante la recente visita del segretario di stato americano Condoleezza Rice, in un discorso pubblico ha dichiarato di essere pronto a iniziare negoziati accelerati anche su questioni come Gerusalemme. Il ministero dell’Interno israeliano ridimensiona i numeri pubblicati dai giornali. Al Foglio Sabine Haddad, portavoce del ministro, spiega che è vero, negli ultimi mesi “c’è stato un netto incremento delle richieste di cittadinanza”, ma il ministero non può fornire cifre. “Pensiamo che la causa possa essere legata all’attuale dibattito politico, ma siamo il ministero dell’Interno, ci occupiamo soltanto delle applicazioni”. La stampa locale e internazionale ha cominciato a parlare dei destini e delle preferenze dei residenti arabi della Città santa già da qualche giorno. Il settimanale Jerusalem Report si chiede come sia possibile che gli abitanti del campo profughi di Shuafat – parte di Gerusalemme est, “un luogo trascurato dalla municipalità, senza marciapiedi, trattato dall’esercito come un potenziale covo di terroristi” – non gioiscano della possibilità di farla finita con la sovranità israeliana. Molti dei 250 mila abitanti arabi della parte est parlano apertamente dei propri timori d’essere tagliati fuori dai lavori in Israele, di perdere l’accesso all’assistenza pubblica e al sistema sanitario statale. Ma non soltanto. Ali Kleibo è pittore, antropologo e direttore del dipartimento di Belle Arti all’università al Quds. La sua è una delle più antiche famiglie arabe della città. Gerusalemme è la fonte principale d’ispirazione per la sua opera artistica. Abita a Shuafat. Il quartiere fa parte di quelle zone che, se un giorno la città dovesse essere divisa, andrebbero all’Autorità nazionale palestinese. “Nessuno vuole l’Anp – dice al Foglio Kleibo – sono corrotti, inefficienti, non ci rappresentano. La popolazione considera l’Autorità un’istituzione imposta dai grandi poteri”. Il pittore non ha richiesto la cittadinanza israeliana, ma negli ultimi mesi, dice, molti suoi amici, vicini e conoscenti hanno iniziato le pratiche. “Ci sarebbe insoddisfazione se Gerusalemme est passasse all’Anp. L’Anp può tornarsene a Tunisi”. Anche in Cisgiordania, dove l’Autorità ha il pieno controllo dal 1994, in seguito agli accordi di Olso, esiste secondo Kleibo “una maggioranza silenziosa” che nasconde gli stessi sentimenti negativi nei confronti della leadership palestinese al potere.

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