Storia esemplare di un'araba israeliana
un articolo di Francesca Paci
Testata: La Stampa
Data: 03/11/2007
Pagina: 14
Autore: Francesca Paci
Titolo: Nabila, velo, volante e Corano
Da La STAMPA del 3 novembre 2007:

All’ingresso di Nazareth, tra le insegne luminose Mango&Coca Cola e le indicazioni per la chiesa dell’Annunciazione, le macchine si ammassano caotiche in un caravanserraglio di lamiere degno del Cairo. Nabila sorride, per niente intimidita: con una mano governa il volante più grande di lei e con l’altra fa cenno d’aspettare al conducente di una Peugeot impaziente che sgasa come ai box della Formula Uno. Nabila abu Dubay, foulard sul capo e abito scuro lungo fino ai piedi, è la prima musulmana a guidare un autobus in Israele, autista pioniera nel Paese dove le strade uccidono più della guerra e il pregiudizio sulle donne al volante, ebree o islamiche che siano, è antico quanto il tempio di Salomone.
«Sin da quando ero piccola sognavo di fare il pilota», racconta Nabila guardandosi intorno orgogliosa. La cabina di guida dell’autobus, con lo specchietto retrovisore formato gigante, non è «alta» come quella di un aereo: ma prima o poi, giura, «arriverò anche lassù, in cielo».
Al capolinea del 3 è capitata un po’ per caso. Trentun’anni, un matrimonio fallito alle spalle con un uomo che la picchiava ogni sera, Ahmed, il figlio di otto anni, da crescere sola: «Ero senza lavoro. La mia famiglia, musulmana tradizionale, mi aveva fatto studiare dai francescani perché la scuola era migliore, ma terminate le superiori mi ero sposata e avevo riposto i libri nel cassetto». Nel 2005 il divorzio, lo sguardo severo dei vicini di casa, la necessità di rimboccarsi le maniche e ripartire da capo.
«Avevo esperienza con i bambini, mi sono iscritta ai seminari Wisconsin e ho cominciato a fare l’assistente all’infanzia in un asilo», continua Nabila. Il programma Wisconsin è un’iniziativa del ministero degli Affari sociali israeliano per combattere la disoccupazione in alcune città a maggioranza araba. «In un paio d’anni abbiamo coinvolto 20 mila persone e ne abbiamo impiegate il dieci per cento», spiega Narim Suliman, responsabile del progetto di Nazareth, laurea in scienze umanistiche e, anche lei, foulard sul capo. Sei mesi fa alla lista dei corsi classici - maestra di scuola materna, contabile, elettricista - si è aggiunto quello di autista d’autobus e Nabila non ha perso tempo.
«E’ stata un’allieva modello, la migliore», ammette il suo insegnate di guida, Sayad Nabia. Nabila abu Dubay adora i romanzi fantastici dello scrittore arabo Ihsan abd Alkodos, ma guardando la tv satellitare al Jazeera ha scoperto che esistono sogni realizzabili come quello di Laleh Seddigh, la pilota di rally iraniana temutissima dai colleghi uomini, un «maschiaccio» esattamente come lei. E quando ha saputo del corso Wisconsin si è candidata. La prima.
All’inizio è stato un test per l’intera città. Le strade di Nazareth sono una giungla dove s’intrecciano machismo automobilistico israeliano, veemenza araba, conservatorismo musulmano con complicità cristiana. «Ogni volta che avevamo una lezione mi aspettavo che qualcuno provocasse un incidente guardandola al volante», ricorda Sayad Nabia. Lei ride e arrossisce: «Gli uomini guidano molto male, quando vedi uno scontro grave puoi scommettere a occhi chiusi su chi guidava l’automobile. Io, in undici anni di patente, ho fatto appena un tamponamento leggero».
Nabila si bea nel collezionare primati: «Dopo l’autobus guiderò l’aereo e poi una nave, un grande incrociatore». Vorrebbe timonare attraverso l’oceano e raggiungere via mare gli Stati Uniti, un altro mito: «Sono stata a Chicago, un paradiso». L’antiamericanismo arabo è qualcosa che capisce («un conto è l’America, un conto è la Casa Bianca»), ma non condivide: «La politica allontana dalla vita reale e rende complicate le cose che nella routine risultano semplicissime». Come il suo essere di origine palestinese e vivere, serena, in Israele, il Paese che le permette di guidare l’autobus: «Se domani nascesse lo Stato della Palestina e dovessi scegliere che passaporto avere sceglierei quello israeliano, sono araba ma vivo qui, questa è la mia terra». E non conta che preghi leggendo il Corano anzichè la Torah: «Ho scelto di mettere il velo sei mesi fa, da sola. Fino ad allora vestivo all’occidentale. Ho deciso di coprirmi il capo e il corpo dopo aver parlato con alcuni amici musulmani osservanti. Probabilmente a Gaza il velo me l’avrebbero imposto e mi sarei ribellata». Qui no, anche l’hijab, il foulard delle credenti musulmane osservanti, è un atto d’emancipazione. Come destreggiarsi nel traffico di Nazareth a bordo di un autobus di linea, dominatrice dello stradario come nessun politico, israeliano o palestinese, della Road Map.

Per inviare una e-mail alla redazione della Stampa cliccare sul link sottostante
lettere@lastampa.it