Iracheni con gli americani e contro il terrorismo
l'analisi di Michael Ledeen
Testata: Il Foglio
Data: 25/10/2007
Pagina: 4
Autore: Michael Ledeen
Titolo: Perché gli iracheni scommettono sugli americani e contro i terroristi

Dal FOGLIO del 25 ottobre 2007:

E se avessimo davvero vinto la battaglia dell’Iraq e nessuno volesse ammetterlo? Dovremmo dichiarare vittoria su al Qaida nella battaglia dell’Iraq? Soltanto pochi mesi fa, porre questa stessa domanda sarebbe apparsa come la prova di una completa demenza; ma ora alcuni autorevoli funzionari militari, compreso il comandante delle Forze speciali in Iraq, il generale Stanley McCrystal, si dicono convinti che tale dichiarazione è giustificata dai fatti. Badate bene, nessuno di loro afferma che la battaglia è finita. Tutti insistono invece sul fatto che c’è ancora molto da combattere, e persino chi ritiene che al Qaida stia crollando a pezzi e precipitando in una spirale di morte sui campi di battaglia iracheni sostiene tuttavia che i terroristi ancora in circolazione continueranno a uccidere soldati delle forze della coalizione e iracheni. Ma, in vaste zone dell’Iraq, domina una relativa tranquillità, persino in luoghi che, appena poco più di un anno fa, avevamo dato praticamente per persi. Insomma, chi aveva proclamato categoricamente che la guerra era ormai definitivamente perduta dovrebbe forse riconsiderare il suo giudizio. Esattamente tredici mesi fa, un autorevole funzionario dei servizi di intelligence dei marine in Iraq aveva scritto che la già critica situazione in cui si trovava la provincia di Anbar si sarebbe ulteriormente aggravata se non fosse stata immediatamente inviata un’altra divisione e forniti cospicui aiuti economici. Oggi, le autorità dei marine si compiacciono apertamente dello sgombero di Anbar, non perché sia una causa persa, ma perché abbiamo sconfitto i militanti di al Qaida. Il blog The Captain’s Journal, scritto dal padre di un marine di stanza a Fallujah, riferisce che da vari mesi a questa parte nessun marine è rimasto ucciso in questa città (un tempo cuore pulsante dell’insurrezione jihadista). Alcuni marine si sono lamentati con un ufficiale di mia conoscenza del fatto che “non c’è nessuno contro cui sparare laggiù, signore. Se si tratta semplicemente di costruire scuole e ospedali, è proprio a questo che deve servire l’esercito?”. In tutta la regione, gli sceicchi sunniti si sono alleati con i marine per cacciare al Qaida; lo stesso è avvenuto nella provincia di Diyala e persino in molti quartieri della stessa Baghdad, dove gli sciiti stanno combattendo contro le milizie dell’esercito del Mahdi, un tempo idolatrate. Le truppe britanniche stanno ritirandosi da Bassora, e ci si aspettava che le milizie sciite appoggiate dall’Iran avrebbero imposto un dominio spietato sulla città; ma non è stato così. Michael Yon, uno dei reporter più attenti tra tutti coloro che hanno seguito tutto il conflitto, è stato recentemente a Bassora e l’ha trovata piuttosto calma e tranquilla. In un’intervista con Hugh Hewitt, il tenente colonnello Patrick Sanders, al comando del quarto battaglione dei fucilieri, stanziato nei pressi di Bassora, ha confermato che nelle ultime settimane le violenze in città sono drasticamente diminuite. Il merito lo attribuisce al lavoro svolto dai soldati e dalla polizia irachena. Malgrado aumentino le prove del nostro successo gli scettici spesso affermano che, sebbene le operazioni militari siano andate bene, non si vede ancora alcun segnale di uno sviluppo politico capace di sanare le profonde ferite che spaccano il corpo politico iracheno. Ma anche in questo caso gli eventi delle ultime settimane mostrano un quadro differente. Appena qualche giorno fa, Ammas al Hakim, figlio e presunto successore del più importante leader politico sciita del paese, si è recato nella capitale della provincia di Anbar, Ramadi, per incontrarsi con gli sceicchi sunniti. L’iniziativa, e le parole che ha detto, sono state davvero stupefacenti. “L’Iraq non appartiene soltanto ai sunniti o agli sciiti. Né appartiene agli arabi, ai curdi o ai turcomanni. Oggi, dobbiamo proclamare che l’Iraq è di tutti gli iracheni”. L’appello di Hakim all’unità nazionale è come un riflesso del pellegrinaggio a Najaf (il cuore dello sciismo iracheno) fatto dal vicepresidente arabo sunnita Tariq al Hashemi. Hashemi ha incontrato il grande ayatollah Ali al Sistani, il più importante religioso sciita del paese. Questa visita ufficiale ha simbolicamente sancito il ruolo di Sistani come più autorevole figura religiosa dell’Iraq. Hashemi ha anche lavorato a stretto contatto con la gente di Hakim così come con i curdi. In altre regioni, si stanno facendo analoghi sforzi di riconciliazione. Come ha scritto Robert McFarlane sulle pagine di questo stesso giornale, il canonico anglicano di Baghdad, Andrew White, ha organizzato alcuni incontri tra i più importanti esponenti delle fedi cristiana, sunnita e sciita, che hanno tutti fatto appello a una riconciliazione nazionale. Il popolo iracheno sembra dunque rivoltarsi contro i terroristi e anche contro coloro che si sono messi in combutta con i signori del terrore a Teheran. Come ha detto il colonnello Sanders, “Quando eravamo a Bassora, la gran parte, se non tutta, la violenza contro di noi era sponsorizzata, finanziata e organizzata dall’Iran. Ma ciò che ha unito le unità della milizia … è stato il sentimento di un nazionalismo iracheno e il risentimento per le interferneze dell’Iran”. Come si spiega questa rapidissima svolta degli eventi? Per lo più, è stata attribuita a una reazione contro le crudeltà di al- Qaida e, nel sud del paese, dell’Iran. Secondo questa versione, gli iracheni si sono semplicemente stufati di tutte le brutali violenze (soprattutto visto che la maggior parte di esse erano dirette contro loro stessi anziché contro di noi), e hanno reagito. Sono stati addirittura disposti ad allearsi con noi pur di sconfiggere i mostri del terrorismo. Ma questa versione non tiene. Sebbene i nostri astuti capi militari siano stati bene attenti ad assegnare la parte del leone agli eccessi dei terroristi e al coraggio delle popolazioni locali, la spiegazione più logica è stata offerta dal compianto David Galula, il colonnello francese che combattè in Algeria e poi scrisse, nel 1963, “Counterinsurgency Warfare: Theory and Practice”. Galula sosteneva che le insurrezioni sono guerre rivoluzionarie e che l’esito è determinato dal controllo e dal sostegno della popolazione. Il modo migliore per pensare a questo genere di guerra è quello di immaginarla come se fosse una partita di “Go”. Ogni schieramento parte con una limitata disponibilità di risorse, e ha il sostegno di una parte del territorio e della popolazione. Ognuno ha qualche carta da giocare all’interno della sfera di influenza del nemico. La “partita” finisce quando uno dei due schieramenti assume il controllo della maggioranza della popolazione e quindi del territorio. Chi riesce a ottenere il sostegno della popolazione vince la guerra. Galula ha capito che, sebbene l’ideologia rivoluzionaria abbia un’importanza centrale nello scoppio di un’insurrezione, non ne ha quasi nessuna per l’esito finale della guerra rivoluzionaria. Questo esito è determinato dalla politica, e, proprio come nel caso di un’elezione, è il popolo a scegliere il vincitore. Nelle prime fasi del conflitto, il popolo rimane quanto più possibile neutrale, cercando semplicemente di rimanere vivo. Ma con l’escalation della guerra è prima o poi costretto a fare una scelta. Il popolo deve fare una scommessa, e questa scommessa diventa una profezia che si realizza da sola. Il popolo dispone del pezzo vincente sulla scacchiera: l’intelligenza. Non appena gli iracheni hanno capito che saremmo stati noi a vincere la guerra, ci hanno fornito informazioni decisive sui terroristi: chi erano, dov’erano, cosa stavano progettando, dove avevano nascosto le proprie armi, ecc. Fuori dalle basi, per le strade E’ facile dire, ma altrettanto inutile, che qualsiasi iracheno assennato preferirebbe noi ai terroristi. Noi siamo intenzionati a lasciare il paese, mentre i terroristi promettono di rimanervi per sempre e di fare dell’Iraq un tassello di un califfato oppressivo. Noi lasceremo il paese nel giro di pochi anni e lo consegneremo agli iracheni, mentre i terroristi (molti dei quali non sono che agenti di potenze straniere) vogliono trasformarlo in un dominio straniero. Noi promettiamo la libertà, mentre i jihadisti vogliono imporre un fascismo clericale e massacrare tutti i loro fratelli arabi musulmani che non la pensano esattamente come loro. Ma questo non basta per spiegare la drastica svolta degli eventi; la vera natura dei terroristi era già perfettamente chiara un anno fa, quando la battaglia per l’Iraq era nella sua fase più critica. Come aveva osservato Galula con grande eleganza, “quale schieramento è in grado di fornire la migliore protezione, quale è più minaccioso, quale ha maggiori probabilità di vincere: sono questi i criteri che governano il giudizio della popolazione. La cosa migliore, naturalmente, si ha quando la popolarità e l’efficacia sono fuse insieme”. La svolta è avvenuta perché abbiamo iniziato a sconfiggere i terroristi, proprio in coincidenza con l’avvio della ormai ben nota operazione “surge”. Si ha la tendenza a considerare questa operazione come un semplice aumento degli effettivi, quando invece il suo elemento più importante è stato un vero e proprio mutamento di dottrina. Anziché tenere un numero eccessivo di nostri soldati lontani dai campi di battaglia, chiusi in remote e superfortificate basi militari, li abbiamo mandati in missione. Anziché reagire alle iniziative dei terroristi, abbiamo iniziato a dargli la caccia. Non ci siamo più attenuti alla gentile finzione che eravamo in Iraq per addestrare le forze locali a combattere da sole la guerra; abbiamo attaccato direttamente i nostri nemici. E’ stato proprio a questo punto che il popolo iracheno ha scelto e ha fatto la sua scommessa. Il popolo iracheno non è affatto stupido. Hershel Smith, del blog The Captain’s Journal, lo dice chiaramente quando descrive gli eventi di Anbar: “Non serve a nulla combattere contro forze (i marine americani) che non possono essere battute e che non se ne andranno via”. Eravamo noi il cavallo più forte, e gli iracheni l’hanno capito. Senza dubbio, i generali Petraeus e Odierno tutto questo lo sanno benissimo; è stata, dopo tutto, la loro stessa strategia a produrre i buoni risultati. La loro riluttanza a prendersi il merito per la sconfitta di al Qaida e di altri terroristi in Iraq è dovuta all’incertezza dell’esito della grande battaglia che si sta ora combattendo qui in patria. I due generali, e i loro soldati, temono che la classe politica di Washington possa ancora riuscire a estrarre una sconfitta dalle fauci della vittoria. Sanno che l’Iran e la Siria hanno ancora la possibilità di attaccarci su una lunga striscia di confine, e lo stesso Petraeus il mese scorso ha detto al Congresso che non si può vincere in Iraq se la nostra missione viene limitata esclusivamente a questo paese. Non passa un giorno senza che uno dei nostri comandanti proclami ai quattro venti che gli iraniani stanno operando freneticamente in tutto l’Iraq e che praticamente tutti i terroristi suicidi sono stranieri, giunti dalla Siria. Abbiamo arrecato gravi danni alle forze terroristiche sul campo di battaglia, ma l’eventualità di una loro escalation è sempre possibile, e noi non abbiamo ancora una politica concreta per intervenire contro i signori del terrore a Damasco e Teheran. E questo incombente conflitto non si potrà risolvere soltanto con un’efficace strategia di controinsurrezione, per quanto brillantemente messa in atto. Michael Ledeen © The Wall Street Journal per concessione di Milano Finanza

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