La protesta dei superstiti della Shoah
e un'analisi della situazione mediorentale: due articoli di Angelo Pezzana
Testata:
Data: 10/09/2007
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Autore: Angelo Pezzana
Titolo: Quei poveri superstiti della Shoah - Rebus Medio Oriente

Da SHALOM di settembre, un articolo di Angelo Pezzana sulla protesta dei sopravvissuti della Shoah in Israele:

Una domenica d’inizio agosto a Gerusalemme, davanti alla Knesset. E’ lì, davanti all’edificio che più di ogni altro rappresenta lo Stato, che si riuniscono i " nizolei hashoah", i supersiti dei campi di sterminio, per protestare contro il governo. Per un aumento di 83 shekel (15 euro !) alla loro già magra pensione. L’argomento è delicato, chi non conosce a fondo la questione, può trarne delle conclusioni del tutto lontane dalla realtà. Che però anche in Israele è poco affrontata, se paragoniamo il tono dei giornali che hanno commentato la protesta con le analisi più attente che sono seguite di lì a pochi giorni. Ci sono andato anch’io quel pomeriggio, volevo partecipare, fra i tanti, alla marcia che avrebbe poi raggiunto l’ufficio del Primo Ministro, dopo gli interventi davanti al palazzo della Banca d’Israele, sentire i commenti, capire come poteva essersi creata una situazione che può solo essere definita vergognosa e umiliante. Volevo vedere come gli israeliani affrontavano, in una manifestazione pubblica, un tema terribile e profondo come la Shoah. La cosa che mi ha colpito di più è stata l’assenza di demagogia, chi era lì, rappresentando migliaia di altri che per motivi di età e di salute non erano potuti venire, cercava di spiegare come fosse intollerabile il comportamento del governo. La rabbia era invece espressa dalle scritte sui cartelli, " Olmert, non colpire i miei nonni", " supersititi per il nostro onore ed il vostro", uno, particolarmente efficace, portava la scritta " Anì nizol hashoah", giocando sulla medisma pronuncia della parola "anì" che però era scritta con la ain, che diventa in quel caso, non io ma "povero", povero superstite della Shoah. Qualcuno diceva " non so se a fine mese pagherò la bolletta della luce o il conto al negozio di alimentari", e non erano parole ad effetto, si leggeva la disperazione in quella frase. Un altro aveva infilato in cima al suo cartello una grossa pagnotta di pane, perchè fosse ben visibile quello che voleva dire. C’era chi portava la stella gialla con la scritta "Jude", un ammonimento che andava dritto dritto fino al Primo Ministro. Miriam Yahav, sopravvissuta ad Aushwitz e Treblinka, ha detto " 60 anni fa fummo uccisi e derubati dai nazisti e da quelli che li hanno aiutati. Oggi, noi sopravvissuti che viviamo in Israele, siamo di nuovo derubati dal nostro governo". Parole forti, avvalorate dalle cifre riportate dai giornali che riferivano di circa 240.000 superstiti tuttora viventi, dei quali 120.000 in condizioni molto disagiate, per non dire di povertà. Con una pensione magra, troppo poco per affrontare con dignità gli anni che restano. Si sentiva, fra quelle migliaia di israeliani accorsi per dire la loro solidarietà, un senso di partecipazione al destino di chi si sentiva lasciato indietro dalle istituzioni, una presenza che era anche un messaggio a Olmert, guarda che non sono soli, ci siamo anche noi a dirti che così non va. Tantissimi erano i movimenti giovanili, Hashomer hazair, Benè Akiva, Habonim Dror e tanti altri, molti con la bandiera, altro segnale che anche i giovani chiamavano in causa lo Stato. La sensazione che ho vissuto, è che non fosse però contro ma invece propositiva, una porta lasciata aperta. Infatti il governo, in seguito alla mnifestazione, ha riaperto le trattative. Che hanno poi portato alla’aumento della pensione, ma con un giudizio sulla definizione di sopravvissuti , che finirà per scontentare tutti. E’ giusto comprendere anche coloro che hanno subito persecuzioni nei paesi occupati dai nazisti, ma senza essere passati attraverso i campi ? E coloro che hanno abbandonato i paesi d’origine, soprattutto quelli arabi, non sono anch’essi dei rifugiati ? In quel numero sono stati inclusi anche migliaia di anziani venuti dalla Russia, dove hanno subito certamente persecuzioni, venuti in Israele senza più alcuna possibilità di poter trovare lavoro. La stragrande maggioranza, però, è riuscita ad integrarsi nel paese, sia sul piano professionale che personale. Includere ogni genere di rifugiato, in un paese che è nato per accogliere ogni ebreo che doveva fuggire per salvare se stesso e la propria famiglia dal terrore dei pogrom e dalle persecuzioni in genere, ha poi obbligato il governo a commettere l’errore di voler soddisfare tutti, in realtà ottenendo il risultato opposto. Olmert, di fronte ai superstiti con la stella gialla sul petto,li ha accusati di voler strumentalizzare la Shoah. Ma, dicono adesso in molti, avrebbe dovuto pensarci prima, invece di spartire fra chi non ne aveva titolo risorse di per sè limitate. Che il Primo Ministro non goda di buona stampa in Israele è un fatto risaputo, e i sondaggi parlano chiaro. Malgrado le iniziative politiche nelle trattative con l’Autorità palestinese, condotte con indubbia abilità, il suo indice di gradimento fra gli israeliani è bassissimo. L’aumento, di per sè poco più alto di quello stanziato in un primo momento, non migliorerà la situazione. Il governo si sta trovando contro i commenti degli analisti politici, i quali, prima di valutare quanto può essere investito, metteranno davanti ad ogni altra considerazione la condizione di tante migliaia di anziani che hanno sempre più difficoltà a mantenere un livello di vita dignitoso. Tra questi, i superstiti dei campi di sterminio, ai quali non basta più l’orgoglio di aver contribuito a creare una nazione, il riconoscimento del loro sacrificio. In un paese, dove la produzione di ricchezza non ha forse uguali nel mondo, sembra impossibile che non si riesca a trovare una risposta soddisfacente a garantire a chi ha conosciuto l’orrore dei campi una vecchiaia degna di questo nome. Bisogna guardare in faccia la realtà, la soluzione non c’è ancora, ed è inutile mostrare cifre globali che forse potranno anche impressionare, ma è la singola pensione che non pesa. Il budget annuale promesso sarà anche stato aumentato, ma non è stato chiarito fra quanti andrà diviso. Occorre fare in fretta, ogni giorno, ci informano le statistiche, sono almeno 35 fra i nizolei hashoah che passano a miglior vita.

Da KARNENU di settembre un articolo di Pezzana sulla situazione politca in Medio Oriente:

Quando si arriva in Terra d’Israele e si chiede beh, come va, com’è la situazione? La risposta, immancabilmente sempre la stessa, beh, sai, arrivi in un momento particolare… come se nella storia di quasi sei decenni dello Stato fosse esistito un momento non particolare. Per cui non mi sono affatto stupito l’altro mese, quando ho posto ad amici ed esperti nelle varie "situazioni" la classica domanda, sentirmi rispondere con la classica risposta. Con quello che è successo nelle ultime due estati, ero curioso di sapere se vi fossero delle previsioni per la prossima. Agosto è un mese piacevole da trascorrere a Gerusalemme, è una città in vacanza come tante altre, la maggior parte degli amici è via, non manca il tempo per studiare, leggere i quotidiani del venerdì il sabato mattina stesi a prendere il fresco sull’erba del giardino dell’Indipendenza, si chiacchiera del più e del meno con i compagni dell’Ulpan, si invidia un po’ chi è in qualche classe più su, si va in giro per la città alla ricerca luoghi ancora da scoprire. Ma due estati fa ci fu Gaza, un nome che imparai a pronunciare senza simpatia, quando il mese di agosto fu travolto dal quel dramma collettivo rappresentato dall’uscita forzata di una moltitudine disperata. Tutto il paese fu coinvolto nell’emozione di quell’avvenimento, che doveva verificarsi, che aveva un senso nel progetto di separazione dagli arabi voluto da Sharon, tutto vero, ma sentirsi nel mezzo di quella storia fu coinvolgente e, diciamolo pure, commovente. L’estate scorsa, in una situazione politica completamente mutata, in una Israele che sembrava disorientata di fronte alla perdita della guida del leader, colpita nelle sue speranze dalla vittoria elettorale di Hamas, ecco la guerra scatenata da un nuovo capo fanatico, Nasrallah, il cui nome è diventato subito, maledizione a lui, famigliare, insieme ai suoi Hezbollah. Missili su tutto il nord, Kiriat Shmona sotto il fuoco, Haifa colpita dai missili e la gente nei rifugi, l’orecchio sempre attento al suono delle sirene che preavvertivano l’arrivo di katiushot dal cielo. In più, ogni giorno, le foto dei soldati caduti, le scene strazianti in televisione durante i funerali, ma in un paese, malgrado la situazione difficilissima, sempre forte e pronto a resistere. I conti si sarebbero poi fatti a guerra finita, e dire che sono tornati è essere poco realisti. Troppe cose non hanno funzionato come avrebbero dovuto, ma la lezione, si dirà dopo, non è stata inutile, anche se è costata, ancora una volta, lacrime e sangue. Adesso Israele sa che non deve più illudersi, se mai si è illusa. Per il fanatismo islamico fondamentalista pace con lo Stato ebraico vuol dire la cancellazione di Israele dalla carta geografica, e ai nemici tradizionali se ne sono aggiunti di nuovi, perchè l’Europa, e una parte del mondo occidentale, non hanno ancora capito che è ora di finirla di chiedere cosa fa Israele per la pace, mentre la domanda va posta a quegli Stati che sembrano esistere solo per portare al mondo minacce e guerre. Eppure a questi Stati non vengono mai presentati i conti. Da Gaza, che di fatto è uno Stato indipendente, continuano a partire razzi contro Sderot, oltre ai danni ora si sommano anche le vittime, ma la cosa interessa poco o niente. Su quella striscia si continuano a scrivere le solite frasi di retorica terzomondista, come se la responsabilità delle condizioni nelle quali vivono i suoi abitanti sia di Israele, nemmeno il fatto che abbiano distrutto le serre lasciate gratuitamente da chi le aveva costruite e trasformate in un fattore produttivo dell’economia locale, ha suscitato domande nell’opinione pubblica occidentale. Invece di tirarsi su le maniche e dimostrare al mondo di essere capaci di dar vita ad uno stato, i palestinesi a Gaza hanno saputo solo attaccare Israele e ammazzarsi tra loro per la conquista del potere. La Siria viene additata da buona parte del mondo politico e diplomatico occidentale quale partner pronto alla pace, a patto che Israele restituisca il Golan, come se quelle colline avessero una qualche potestà che la Siria potesse rivendicare. Le ha usate sempre per sparare, uccidere, rendere la vita intollerabile agli israeliani che vivevano nelle pianure, sarebbe masochistico rimettere in piedi la situazione di prima. Pace contro pace, ecco quello che la Siria, con il suo passato e presente di Stato coinvolto in tutti i traffici più loschi della regione, può al massimo ottenere. Interessa veramente a qualcuno poi che l’Iran tra due anni possa avere l’arma atomica con la quale aggredire Israele. Fuori i nomi della lista, a me non vengono in mente. Una grande confusione regna anche sul Libano, il cui premier Siniora, non dimentichiamolo, dichiarò la scorsa estate che il suo governo sarebbe stato l’ultimo al mondo a riconoscere Israele. Se l’ha detto per tenersi lontano dai terroristi islamici, allora ha fatto male i suoi calcoli, perchè oggi se c’è un paese che sta per collassate sotto l’attacco terrorista, questo è il Libano. Dopo quest’estate, e l’entrata in carica ufficiale di Shimon Peres, aspettiamo altre buone notizie. Ad essere sinceri non sapremmo quali, ma da qualche parte usciranno fuori. Malgrado le mille ragioni dei pessimisti, sono certo che prevarranno quelle dei realisti.

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