Vergogna per quelle vite salvate ?
no, la barriera difensiva israeliana è legittima difesa
Testata: La Stampa
Data: 10/09/2007
Pagina: 18
Autore: Mario Vargas Llosa
Titolo: Al muro della vergogna tra dolore e speranza

La STAMPA del 10 settembre 2007 pubblica a pagina 19 un articolo di Mario Vargas Llosa sulla decisione della Corte suprema israeliana di imporre una modifica al tracciato della barriera di sicurezza Bilin.

La decisione prova di per se che, quando sussiste un dubbio sul fatto che la sicurezza imponga un certo percorso della barriera, la Corte suprema israeliana privilegia la tutela dei diritti (di proprietà e di movimento) dei palestinesi.

Vargas Llosa è molto lontano dal trarre questa ovvia conclusione. L'articolo è una condanna della barriera in quanto tale. Descrive una rapina sistematica a danno dei palestinesi (dimenticando che per i terreni espropriati è previsto un risarcimento), bolla Israele di razzismo e colonialismo, definisce "pretesto" la finalità antiterroristica della barriera, che chiama "il muro di Sharon".

Le ragioni della sicurezza sono ignorate, gli israeliani che appoggiano  la bariera difensiva sono accusati di aver "perso la testa" e di "razzismo", perché sarebbero favorevoli a una punizione collettiva contro i palestinesi, tra i quali solo una minoranza sosterebbe il terrorismo ( allora, per esempio, chi avrebbe dato la vittoria elettorale ad Hamas ? Chi celebra i terroristi suicidi con poster e album di figurine per bambini ?).
I sostenitori della "grande Israele", che pacificamente vivono in Cisgiordania o sostengono chi vi vive, sono equiparati ai terroristi che hanno massacrato centinai di civili israeliani.

L' articolo è intitolato "Al muro della vergogna tra dolore e speranza". Il quotidiano adotta così in pieno la retorica dello scrittore peruviano. Ma ad essere vergognosa è invece l'idea cha la minaccia contro la vita degli israeliani, possa non nemmeno essere presa in considerazione nel formulare un giudizio morale sulla barriera difensiva.
Se c'è un atteggiamento al quale si adatta il termine di "apartheid" è proprio questo.
Apartheid contro vite "di seconda categoria".

Ecco il testo dell'articolo: 
 


La Corte suprema di Israele ha dato ragione, all’unanimità, alla popolazione del villaggio palestinese di Bilin, in Cisgiordania, e decretato che il muro che la strangola dev’essere modificato per un chilometro e 700 metri della sua lunghezza affinchè i contadini possano accedere ai 200 ettari coltivati dai quali «il muro di Sharon» li tiene separati. Il governo di Ehud Olmert ha fatto sapere, attraverso un portavoce, che «rispetterà la decisione». Proprio nei giorni in cui leggevo questa notizia ho ricevuto, per una felice coincidenza, il documentario che Claudia Levin e Shai Carmeli-Pollak - l’una produttrice, l’altra regista - hanno dedicato a questo piccolo villaggio di circa 1600 abitanti, «Bilin, my love», che da venerdì 20 febbraio 2005 è diventato un simbolo della lotta dei pacifisti israeliani contro il famoso «vallo di sicurezza» di 650 chilometri che il governo di Ariel Sharon aveva ordinato di costruire col pretesto d’impedire ai terroristi suicidi che arrivavano dai territori occupati di raggiungere le città di Israele. In realtà, questa spessa muraglia di cemento armato e reti ad alta tensione penetra profondamente nei territori occupati, divide in due e, a volte, in tre le località che attraversa, separa le persone dalle loro fattorie e dai loro greggi, gli scolari dalle loro scuole, gli ammalati dagli ospedali, interrompe le comunicazioni tra le popolazioni palestinesi e trasforma gli spostamenti attraverso le sue porte molto intervallate in indescrivibili incubi. (Io li ho vissuti).
I danni causati dal muro sono stati, a Bilin, più nefasti che altrove. Per costruirlo Tzahal, l’esercito israeliano, ha sradicato migliaia di ulivi vecchi di secoli e reso impossibile a questa gente poverissima di accedere alle loro piccole coltivazioni e ai campi su cui pascolavano le loro capre, condannandola, così, a una morte lenta. Contestualmente veniva edificato, nei dintorni, il complesso di Modiin Illit, con sei insediamenti di coloni, finanziato da capitali canadesi che appoggiano i progetti dei religiosi fanatici impegnati nella costruzione della Grande Israele Biblica. Più tardi si sarebbe scoperto che quelle costruzioni erano iniziate illegalmente visto che le imprese avevano acquistato i terreni in modo fraudolento. Il 20 febbraio di due anni fa, un venerdì, gruppi di israeliani hanno incominciato a manifestare nei dintorni di Bilin in segno di soldarietà con le proteste dei palestinesi che vivevano lì. Da quel giorno questi raduni si sono ripetuti ogni venerdì e, a poco a poco, vi hanno preso parte anche volontari d’ogni Paese, organizzazioni per la difesa dei diritti umani, giornalisti, istituzioni religiose e molti giovani conosciuti in Israele sotto la bugiarda definizione di «anarchici» visto che, tra loro, si mescolano hippy e punk, ecologisti e seminaristi, rabbini e vecchi comunisti.
Il 9 settembre del 2005 mia figlia Morgana e io eravamo con alcune centinaia di questi manifestanti israeliani che tentavano di entrare a Bilin per riunirsi con i palestinesi che tenevano nel villaggio un’altra manifestazione di protesta, ma solo un pugno di ragazzi è riuscito a superare la barriera che i soldati di Tzahal avevano costruito per chiudere tutti gli ingressi al villaggio. Tra il fumo dei lacrimogeni, una giovane s’è avvicinata a Morgana e a me e ci ha pregato che l’aiutassimo ad andarsene da quel posto perché, altrimenti, sarebbe stata arrestata. Così abbiamo fatto, mostrando le nostre credenziali di giornalisti ai militari che le hanno rispettate. Si trattava di Claudia Levin, una cineasta israeliana d’origine argentina che, a quanto ci ha detto, poi, mentre viaggiavamo verso Tel Aviv, da tempo stava realizzando un documentario sul dramma di questo villaggio palestinese e sul movimento di solidarietà che aveva messo in moto e in cui lei stessa militava. L’avevano arrestata e multata parecchie volte, ma mai processata.
Il suo documentario dura poco più di un’ora ed è stato realizzato in condizioni piuttosto precarie, con telecamere portatili che, visto il contesto in cui quasi sempre vengono utilizzate - sassaiole, spari, lanci di gas lacrimogeni, scontri violenti - a volte danno l'impressione di finire in mille pezzi, ma è profondamente commovente e lascia impresse nella memoria immagini che descrivono nella maniera più vivida e persuasiva la tragedia quotidiana di queste povere famiglie palestinesi, spogliate delle loro misere proprietà, prese d’assedio e destinate praticamente all’estinzione da una politica inumana che condanna tutti i palestinesi dei territori occupati a pagare per i crimini commessi da un pugno di fanatici di Hamas e della Jihad islamica che, proprio come quanti propugnano la nascita della Grande Israele, sono convinti che il fine giustifichi sempre i mezzi.
Il documentario di Claudia Levin e di Shai Carmeli-Pollak dimostra, però, che esiste anche, nonostante la terribile radicalizzazione estremista sperimentata dal paese dopo il fallimento dei negoziati di Camp David e di Taba (2000 e 2001) un’altra Israele di persone rispettabili e idealiste, alle quali la violenza che le circonda non ha fatto perdere né la testa né la dignità, né le ha fatte diventare razziste, e che, come loro stesse o il mio amico Meir Margalit e tanti altri, sono state capaci, per due anni e mezzo, di dedicare tutti i venerdì della loro vita ad affrontare con le proprie bandiere e i propri striscioni le pattuglie armate sino ai denti di Tzahal e ad essere prese a calci, bastonate a sangue, respinte con i gas, messe in carcere e multate.
Le agghiaccianti immagini del documentario non cedono a nessuna demagogia. Ecco la testimonianza di due fratelli, giovani israeliani non legati ad alcuna ideologia, che partecipano a queste manifestazioni spinti da pura dignità più che per obbedienza a principi politici; perchè si rendono conto che a Bilin sta succedendo qualcosa di sporco e di ignobile, un saccheggio protetto esclusivamente dal diritto della forza e che privare dei loro miseri poderi e dei loro ulivi e delle loro capre questa povera gente nel sacrosanto nome della sicurezza mentre, proprio lì, si costruiscono imponenti insediamenti nei quali presto verranno a stabilirsi i coloni, è non solo un atto di cinismo, ma un atto di colonialismo e di conquista in totale contraddizione con tutto ciò che ha reso possibile la nascita di Israele.
La pratica del colonialismo è perversa perchè semina odio, violenza, razzismo e pregiudizi sia nei colonizzatori sia nei colonizzati. La sequenza più straziante del documentario è una rappresentazione teatrale di scolari nelle strade di Bilin in cui i bambini del villaggio mimano le scene che hanno visto o vissuto sulla propria pelle, nelle loro case, durante le notti quando arrivano improvvisamente le pattuglie di soldati per portarsi via i giovani o per registrare i nomi di tutti e s’accaniscono senza pietà su tutto quello che si muove perchè anche loro, i militari, sono morti di paura e impregnati di quest’odio contagioso: proprio quello che consente loro di compiere le ignobili azioni che compiono senza provare i morsi della vergogna. Non occorre dire che anche questi bimbi sono impregnati d’odio. E, così, giocano a morire e a uccidere, a sparare e a far esplodere bombe, proprio come fanno le persone grandi che stanno loro attorno. Un’altra scena indimenticabile del documentario è quella del soldato che, preso da un attacco di disperazione, grida ai fotografi: «Tra una settimana me ne vado, per cui non me ne importa niente. Fate tutte le foto che volete». E spara a bruciapelo nel mucchio.
Sarà rispettata la sentenza della Corte suprema di Israele che - questo è il suo senso profondo - riconosce il diritto alla sopravvivenza dei 1600 abitanti di Bilin? C’è da chiederselo perchè la Corte suprema israeliana - un’istituzione che gode di grande prestigio e che, in parecchie circostanze, ha mostrato la propria indipendenza anche di fronte al potere politico - già un paio d’anni fa aveva decretato che il muro venisse modificato per oltre 13 chilometri dal momento che soffocava senza motivo la città di Kalkilia, tagliandola in tre parti e, sino a ora, questa sentenza non è stata attuata. D’altronde i governi israeliani non hanno preso nella minima considerazione la sentenza emessa il 9 luglio 2004 dalla Corte internazionale dell’Aja che dichiarava illegale la costruzione del muro. Per cui non è impossibile che l’agonia di Bilin continui a tempo indefinito.
In realtà questo problema avrà una via d’uscita solo se Israele e Palestina firmeranno un trattato di pace che, riconoscendo a Israele il diritto di esistere all’interno di frontiere sicure, stabilisca uno Stato Palestinese reale e vitale, non questa groviera piena di buchi concepita da Sharon. A giudizio di molti commentatori la guerra aperta tra Hamas e Al Fatah culminata con la presa di Gaza da parte di quel movimento estremista, allontana ancor più nel tempo la possibilità di quest’accordo. Ma qualche persona di buon senso come Amos Oz, per esempio, è convinta del contrario: che, cioè, l’aperta rottura tra i moderati e gli islamisti palestinesi possa rendere più facile un negoziato tra Israele e l’Autorità Palestinese. Magari fosse così. Il problema è rappresentato dalla impopolarità di Al Fatah causata dall’inefficienza e dalla corruzione dimostrate, il che spiega la popolarità di Hamas che va oltre la simpatia delle masse palestinesi per le tesi fanatiche.
E’ possibile che, finalmente, israeliani e palestinesi vivano come buoni vicini? Guardate il documentario «Bilin, my love» e vi convincerete che è possibile. Vale la pena aggiungere un post scriptum: questo documentario, anche se non lo crederete, è stato interamente finanziato da istituzioni israeliane e, fra queste, il ministero della Cultura di Israele. Non bisogna perdere le speranze.

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