Conoscere Aharon Appelfeld
uno dei massimi scrittori israeliani contemporanei
Testata: Corriere della Sera
Data: 08/09/2007
Pagina: 39
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: Aharon Appelfeld, i due volti degli ebrei

Aharon Appelfeld è uno dei massimi scritttori isrealiani contemporanei. Meno famoso dei più noti Oz,Grossman,Yehoshua, forse li sovrasta tutti. Sul CORRIERE della SERA di oggi 08/09/2007 a pag.39, una lunga intervista di Lorenzo Cremonesi. Eccola:

GERUSALEMME — Aharon Appelfeld è affascinato da quelli che chiama «uomini di confine ». Figli di un universo variegato di identità in conflitto. Gente «a metà da una parte e a metà dall'altra». Persone che si interrogano, ma pronte anche a cadere nelle illusioni, a fuggire nell'autoinganno pur di non guardare in faccia a una realtà troppo difficile, troppo ostile. «Così erano i miei genitori. Specialmente mio padre. Ebrei mitteleuropei, assimilati nel caos di lingue, culture e tradizioni fuoriuscite dalla caduta dell'impero austroungarico. Pronti ad abbandonare il particolarismo esasperato del mondo yiddish dello
shtetl e decisi a sposare l'universalismo laico dell'umanesimo progressista imperante tra le élite intellettuali europee degli anni Venti e Trenta», racconta lo scrittore nella sua villetta a Me-vasseret Rachel, il grande quartiere fiorito costruito dagli anni Settanta a dominare l'ultima vallata che, arrivando da Tel Aviv, precede la salita per Gerusalemme.
Questo il tema di Badenheim 1939, considerato uno dei suoi libri più importanti, della quarantina pubblicati dal 1962 a oggi, in uscita ora da Guanda (pagine 150, e 13. Era già apparsa una traduzione per Mondadori nel 1981). Appelfeld lo scrisse in ebraico ormai circa un trentennio fa. Ma ne parla ancora come fosse stato terminato ieri in questa stanzetta buia al piano terra, una vecchia e massiccia macchina da scrivere sulla scrivania. «Non mi sono mai trovato bene con il computer », ammette mostrando i resti di una tastiera e un visore semisommersi in pigne di carte polverose, circondata da libri in ebraico, ungherese, rumeno, tedesco, inglese, yiddish, persino francese e italiano («lo imparai a parlicchiare nel 1945 quando, quattordicenne, arrivai in Italia per qualche mese sulla via della Palestina mandataria»).
«A Badhenheim andavo per le vacanze estive assieme ai miei genitori. Era una delle località austriache più note a quel tempo. Mi sembrò il luogo più giusto per adattarvi un romanzo sulla grande illusione della media e alta borghesia ebraica europea, convinta di appartenere in tutto e per tutto ai propri Paesi di origine e decisa in ogni modo a non vedere, a non capire, che l'era dell'assimilazione era terminata da un pezzo e stava invece aprendosi letteralmente sotto i loro piedi quella della discriminazione razziale, dell'orrore e dei campi di sterminio. Quella del 1939 è la loro ultima estate. Dovrebbero scappare, fuggire lontano, mettersi in salvo all'estero, cercare il visto per gli Stati Uniti, l'America Latina, qualsiasi posto pur di allontanarsi dagli artigli del Terzo Reich. E invece se ne restano a Badhenheim. Ciechi di fronte ai continui segnali di allarme. Sbalorditi dalle richieste delle municipalità perché gli ebrei vengano a registrare i loro nomi. Continuano ad ascoltare musica, parlano di arte e di letteratura, le loro vere religioni, sono affascinati dai preparativi per il festival locale, che ogni agosto intrattiene i visitatori di Badhenheim. Convinti che tutto si rimetterà a posto e l'antisemitismo sia solo un fenomeno di ignoranza passeggera. Illuministi sino all'ultimo capello, sono troppo assorbiti dalle loro abitudini per vedere i fili spinati. Sino a che il treno merci non se li porterà via tutti», spiega Appelfeld. La sua storia personale ha fatto il giro del mondo. È diventata negli anni la leggenda tragica degli orfani dell'Olocausto. Oltre 100.000 bambini come lui arrivarono in Israele dopo la Seconda guerra mondiale. Nato nel 1932 a Czernovitz, nella Bukovina allora rumena e oggi ucraina, l'impatto con la brutalità della shoah arrivò per lui nel giugno 1941, quando si trovava nella casa di campagna dei nonni a Dracinezx, un piccolo villaggio sui Carpazi. «Avevo nove anni. Quella mattina ero a letto con la tonsillite. Udii il trambusto, raffiche di mitra. Erano le bande di rumeni assieme ai soldati tedeschi, cercavano gli ebrei. Saltai dalla finestra e mi nascosi in un campo di grano. Mia madre venne uccisa subito. Non vidi mai il suo corpo, ma da lontano sentii uno sparo e un grido. Da allora non vidi più nessuno dei miei familiari. Solo mio padre, con lui fummo deportati in un campo di lavoro dopo una marcia forzata di due settimane. Ci separarono, attorno morivano tutti di fame e di tifo. Io scappai. Con mio padre ci ritrovammo in Israele solo nel 1959», ricorda.
Così, la fuga nei boschi. Per quattro anni nasconde la sua identità. Vive di bacche, beve dai ruscelli. Quando arriva il freddo dell'inverno trova riparo da una prostituta, poi sta con un gruppo di banditi. «Dicevo che ero un orfano di guerra, mai rivelai di essere ebreo. E trovai sempre qualcuno disposto a darmi un tozzo di pane. Proprio la gente ai margini della società era più pronta ad accogliermi. Un criminale ha sempre bisogno dell'aiuto di un bambino». Memoria e immaginazione, così Appelfeld ha lavorato per superare il trauma. «Inizialmente scrivevo per ritrovare i miei genitori e quel mondo scomparso. Ben consapevole dei limiti immensi della memoria di un bambino. A dieci anni nei boschi, solo, vivi di illusioni. Ricordo qualche sensazione, immagini, nessun nome. Ero come un animaletto: infreddolito dalla notte, felice di trovare una fragola, un laghetto. La mia innocenza mi ha salvato dall'odio».
Ma non critica l'assimilazione. Non rifiuta il valore perenne della diaspora ebraica. «Io sono prima di tutto un ebreo europeo. Guai dimenticare i Freud, i Marx e l'esercito di ebrei, o mezzi ebrei, che ha fatto grande la cultura europea», ripete più volte. Anche per questo è particolarmente attento alle vicende dell'ebraismo italiano: «una delle comunità diasporiche più antiche e sempre tentata dall'assimilazione». Ricorda con affetto una lunga intervista molti anni fa con «un ebreo in dubbio come Alberto Moravia». Racconta: «Moravia venne da me con una troupe della Rai. C'era anche una sua giovane compagna molto affascinate, che sembrava decisa a divertirsi con tutti gli uomini più interessanti che incontrava. Ma Moravia era pensoso, la guardava con distacco, molto più assorbito dal nostro discorso sulle identità lacerate e i figli dei matrimoni misti».
Israele per lui arriva dopo. Ancora universitario negli anni Cinquanta, quando tutto il Paese era impegnato nel mito collettivo della costruzione dell'«uomo nuovo», figlio dei contadini tra i campi della Galilea, lui del tutto fuori moda cercava le sue radici studiando l'yiddish, la lingua dei nonni appena morti nelle camere a gas. «Molti anni fa ne parlai con Primo Levi, che mi aiutò a pubblicare i primi libri in Italia. Anche lui ebbe difficoltà a farsi ascoltare all'inizio. In Italia nessuno voleva pubblicare Se questo è un uomo. Quando proposi a un editore israeliano un libro sugli ebrei di Czernovitz mi fu risposto che sarebbe stato molto meglio ambientarlo in un kibbutz», dice. La sua epopea comunque non diventa un inno al nazionalismo sionista, anche se la sua esistenza incarna il messaggio più puro dell'Israele rinato dalle ceneri dello sterminio. Più volte lo hanno criticato per l'assenza di empatia per i palestinesi. Ma lui glissa con poche parole: «Certo che nei loro confronti sono stati commessi gravi errori politici. E non è impossibile che la memoria ossessiva e totalizzante dell'Olocausto abbia in qualche modo condizionato certe durezze israeliane verso gli arabi, è una teoria che va molto di moda tra i nuovi storici israeliani. Ma, attenzione, paragonare gli israeliani ai nazisti e i palestinesi alle loro vittime non è solo falso, ma anche folle e ignorante».

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