Visita a sorpresa di Bush in Iraq
la riduzione delle truppe ci sarà se aumenta la sicurezza, e intanto viene inaugurata la prima università americana
Testata: Il Foglio
Data: 04/09/2007
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: Bush a fianco di Petraes in Iraq - Benvenuti nell’altro Iraq, inaugurata la prima “Università americana” -
Dal FOGLIO del 4 settembre 2007:

New York. Il presidente americano George W. Bush è volato a sorpresa in Iraq, atterrando ieri mattina alla base aerea di al Asad, nella provincia di Anbar. E’ stata la terza visita in Iraq di Bush, dopo la destituzione del dittatore iracheno Saddam Hussein del 2003, la prima in una zona sunnita che fino a poco tempo fa era dominata da al Qaida ed era l’epicentro del caos post invasione. Bush è volato proprio lì, per far rimbalzare in America le notizie dei progressi compiuti grazie alla nuova strategia politica e militare elaborata all’inizio di gennaio insieme con il generale David Petraeus. “Con altri successi – ha detto ieri il presidente – potremo ridurre il numero delle truppe, da una posizione di forza, non di paura e fallimento”.
La situazione nella provincia a nordovest di Baghdad è migliorata in modo sensibile, sia secondo fonti governative sia secondo i racconti indipendenti di analisti e giornalisti dei grandi quotidiani liberal, ma non al punto da convincere Bush a uscire dalla base protetta da diecimila soldati. Il viaggio è stato pensato sei settimane fa, in vista del dibattito congressuale sul futuro della guerra irachena che comincerà a Capitol Hill il 10 e l’11 settembre con le relazioni di Petraeus e dell’ambasciatore a Baghdad, Ryan Crocker. Il 15 ci sarà la relazione della Casa Bianca, poi toccherà al Congresso esprimersi. A parte il ristretto gruppo di senior advisor di Bush, nessuno era al corrente della visita in Iraq. I giornalisti al seguito del presidente erano pronti a partire ieri mattina per l’Australia, dove Bush parteciperà al vertice dei paesi dell’area asiatico-pacifica, ma sono stati convocati dall’ufficio stampa della Casa Bianca già domenica pomeriggio. Gli uomini del Pentagono e del Consiglio per la sicurezza nazionale hanno preso in consegna cellulari e computer e spiegato ai cronisti che si sarebbe fatta tappa in Iraq, dopo un volo di undici ore. Bush li ha raggiunti sull’Air Force One, dopo essere uscito da una porta laterale della Casa Bianca. Le misure di sicurezza sono state particolarmente rigide, anche perché Bush ha deciso di riunire in Iraq tutto il suo gabinetto di guerra, proprio per sottolineare l’importanza del momento. Una cosa del genere non era mai successa, ma era esattamente il gesto simbolico, rivolto sia a Washington sia a Baghdad, ideato da Bush. Con lui, infatti, c’erano anche il consigliere per la Sicurezza nazionale, Stephen Hadley, il segretario di stato, Condoleezza Rice, il coordinatore delle guerre in Iraq e Afghanistan, Douglas Lute, e i maggiori consiglieri. Alla base aerea, con altri mezzi, sono arrivati anche il segretario alla Difesa, Bob Gates, il capo di stato maggiore, Peter Pace, il comandante regionale del medio oriente, William Fallon, e, ovviamente, Petraeus e Crocker. Dopo un briefing con i suoi, Bush ha incontrato il primo ministro iracheno, Nouri al Maliki, il presidente Jalal Talabani e i vicepresidenti Adel Abdul Mahdi e Tareq al Hashemi. Prima di ringraziare i soldati e parlare alle truppe, Bush ha incontrato anche i capi delle tribù sunnite della zona, gli ex nemici ora diventati alleati contro al Qaida e aspiranti sodali del governo di Baghdad.

La resistenza al Senato
Il lato iracheno del viaggio di Bush è stato volto ad accelerare la riconciliazione tra i sunniti e il governo guidato dagli sciiti. Bush e i suoi temono che la cautela di Baghdad possa compromettere il successo militare ottenuto nelle zone sunnite e, quindi, affievolire la fresca volontà delle tribù di partecipare alla costruzione di un nuovo Iraq. Andare ad Anbar, anziché a Baghdad, è stato un segnale di attenzione nei confronti dei sunniti, ma anche di pressione su Maliki. Il viaggio, però, ha anche un aspetto di pura politica interna americana. Ufficialmente, sia la Casa Bianca sia i leader del Partito democratico aspettano le relazioni di Petraeus e Crocker prima di decidere che cosa fare. La sensazione è che Petraeus chiederà a Bush di prolungare il “surge”, ovvero l’attuale livello di truppe, fino alla prossima primavera. Bush ovviamente è d’accordo. Al momento pare difficile che i repubblicani possano perdere pezzi, visto che in Iraq si cominciano a intravedere i primi risultati e i generali chiedono di restare. I candidati repubblicani alla Casa Bianca, peraltro, restano solidi sostenitori della nuova strategia. I democratici si trovano in una situazione di maggiore imbarazzo. Un mese e mezzo fa erano convinti di poter arrivare allo showdown di settembre con un altro fallimento militare di Bush. In quell’occasione rifiutarono le ipotesi di compromesso bipartisan offerte da un paio di senatori repubblicani. Ora, invece, sono disponibili a rivedere la strategia, visto che un consistente gruppo di propri deputati eletti in circoscrizioni conservatrici comincia a rumoreggiare e i sondaggi d’opinione hanno invertito la tendenza (l’ultimo di Zogby dice che il 54 per cento degli americani ora crede che la guerra possa essere vinta). I candidati democratici alla Casa Bianca, con diverse modulazioni, sono ancora favorevoli al ritiro ordinato e graduale, ma la partita si gioca al Senato. I democratici possono contare su 51 senatori, ma per cambiare rotta hanno bisogno di almeno altri nove voti per superare l’ostruzionismo. E, poi, di altri sette per superare il veto di Bush.

Un articolo di Giulio Meotti sull'Università americana dell’Iraq:

Roma. L’università sorge vicino alla fossa comune che conteneva i resti di 500 curdi giustiziati dagli ascari di Saddam Hussein. A Sulaimaniyah, la capitale dei territori amministrati da Jalal Talabani e Massoud Barzani, è stata inaugurata la prima “Università americana dell’Iraq”. In quella stessa città il mullah Krekar, legato alla rete di al Zarqawi, aveva instaurato un regno talebano fino al 2003, predicando contro i sufi, di cui distrusse i luoghi di culto, bandendo le parabole satellitari, la musica occidentale e le foto femminili dai prodotti importati in città. “Ammazzatene trenta alla volta” diceva Krekar dei “kuffar curdi”, gli infedeli. Nel novembre 2003 il presidente iracheno Talabani accusò Krekar di fomentare la “controrivoluzione antidemocratica e fascista”. La corte di giustizia di Sulaimaniyah ne aspetta ancora l’estradizione dalla Norvegia. Nell’inaugurare l’ateneo americano di cui è rettore, il vicepremier iracheno Barham Salih parla di un’esplicita risposta a chi tenta di soggiogare il popolo iracheno. Durante il regime di Saddam, il Baath prendeva ogni decisione sulla vita universitaria. Agli studenti era proibito esprimersi liberamente, l’aramaico e il siriaco erano lingue bandite. Al Qaida ha proseguito questa tradizione mortifera. Dal ministero dell’Educazione si parla di un migliaio di accademici uccisi dai terroristi, ottanta nella sola Università di Baghdad. “L’uccisione degli intellettuali e degli scienziati iracheni ha uno scopo molto chiaro – dicono dall’Iraqi Committee for Sciences and Intellectuals – svuotare la terra di Babilonia, la terra di tutte le civiltà da ottomila anni”. La scelta di Sulaimaniyah è simbolica da parte degli americani. Nel dicembre del 2005 nella città dove Saddam seppellì un migliaio di sciiti, i curdi accolsero l’ayatollah sciita Abdul Aziz al Hakim. Era la prima volta che un leader arabo sciita del sud veniva ricevuto con tale entusiasmo. I 162 ettari su cui è stata innalzata l’università, prosegue Salih, sono uno dei frutti più belli dell’“Iraq americano”. Imprigionato dalla polizia segreta di Saddam, Salih spiega che l’università è chiamata “americana” come gesto di “gratitudine per averci liberato”. Alla cerimonia hanno partecipato l’ambasciatore americano Ryan Crocker e l’ex premier Iyyad Allawi. “Vogliamo che studino Locke e Madison e capiscano che la democrazia non è il dominio della maggioranza, ma anche i diritti delle minoranze” spiega Azzam Alwash, fra i fondatori dell’università. Nel board siedono l’arabista Fouad Ajami, origini irachene e libanesi, l’intellettuale Abdul Rahman al Rashed e il direttore dell’Iraq Memory Foundation, Kanan Makiya. Il professor John Agresto, l’unico non iracheno a far parte del comitato e che ha ricoperto il ruolo di consulente del ministero dell’Educazione iracheno fino al 2004, spiega che le lezioni si svolgeranno in inglese, non si insegnerà sunna e Corano, come aveva imposto Krekar, ma un po’ di storia dell’indipendenza americana e di scritti dei Padri fondatori. “Abbiamo a cuore le stesse cose, libertà e dignità” ha detto Salih, l’università sta accogliendo studenti sunniti, sciiti, curdi e altre minoranze. “Vedrete che la diversità irachena è una risorsa, non un problema”. Università simili saranno costruite a Bassora e Baghdad. “Mi sono spesso chiesto perché i miei compatrioti iracheni non potessero accedere alla stessa educazione che ho ricevuto io” ha detto Salih, studi inglesi durante l’esilio. “L’Iraq è il cuore del medio oriente, speriamo che gli studenti arrivino da ogni dove” conclude Salih. Secondo Agresto “questo tipo di università offre un certo tipo di liberazione”. Dopo quella fisica, è la liberazione dalla tirannia instillata prima dalla “repubblica della paura” di Saddam e poi dall’emirato clandestino di al Qaida. Secondo Saleh, l’università “mostra cosa può essere l’Iraq”. Fouad Ajami ironizza: “Le più grandi esportazioni dell’America sono Hollywood e l’alta educazione”. In uno spot della comunità curda diffuso negli Stati Uniti si vede un giovane iracheno che “batte un cinque” con un soldato americano, una sala da pranzo all’aperto e uomini e donne che ballano insieme. “Hai visto il nuovo Iraq?”, chiede la voce narrante. “E’ spettacolare. E’ gioioso. Benvenuti nel Kurdistan iracheno. Non è un sogno. E’ l’altro Iraq”. Barham Saleh, che trasuda ottimismo dopo essere sfuggito a cinque attentati di al Qaida, pensa che sia scritto, quelle immagini le vedremo ovunque in Iraq. “Le fosse comuni sono una ragione sufficiente per giustificare la moralità di questa guerra di liberazione”.

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