Il diaologo con Tariq Ramadan, la tolleranza verso i predicatori d'odio
articoli di Pierluigi Battista e Magdi Allam
Testata: Corriere della Sera
Data: 04/09/2007
Pagina: 39
Autore: Pierlugi Battista - Magdi Allam
Titolo: Il caso Ramadan: i dialoghi pericolosi con i «pontieri» - Quei predicatori d'odio contro gli apostati sono arrivati in Italia
Dal CORRIERE della SERA del 4 settembre 2007, un articolo di Pierluigi Battista su Tariq Ramadan:

Il magazine «Time» lo ha inserito tra i cento intellettuali più influenti del mondo, ma in Francia non hanno dimenticato quando Tariq Ramadan dichiarò (poi parzialmente ritrattando) che l'eccessiva considerazione pubblica per le tesi sostenute da Bernard- Henri Lévy, Alain Finkielkraut e André Glucksmann era la prova definitiva del peso che l'elemento «ebraico » esercitava sui media francesi. Negli Stati Uniti, dopo l'11 settembre, il suo nome è incluso nella lista degli «indesiderati ».
Ma il governo di Tony Blair, all'indomani degli attentati a Londra del 2005, lo ha voluto tra i consulenti per trovare una soluzione al problema della convivenza con la comunità islamica in Gran Bretagna. Le mille facce, ambigue, multiformi, polivalenti del «pontiere» Tariq Ramadan. Due intellettuali come Paul Berman e Ian Buruma, come ha riferito su queste pagine Dino Messina domenica scorsa, discutono animatamente se con il pontiere Ramadan si possa discutere o no. Ma è davvero un ponte tra culture in aperto e irriducibile conflitto, Ramadan? E se lo è, si è mai visto nella storia degli ultimi secoli un pacificatore che al momento opportuno, nel fuoco dello scontro, non abbia comunque optato per una parte, distrutto il ponte riducendo in frantumi l'intero edificio del dialogo tra le parti in guerra?
Paul Berman, che su «New Republic » ha scritto un dettagliato profilo del pontiere islamico (o islamista? o fondamentalista? o giustificazionista di ogni forma di terrorismo?) integralmente tradotto dal «Foglio», suggerisce di considerare Ramadan non tanto come un «cattivo maestro» come ai tempi delle Brigate rosse, ma come il filosofo Martin Heidegger «che non uccise mai nessuno ma sostenne il razzismo » o come «Jean-Paul Sartre, cattivo maestro che appoggiò Stalin».
Paragoni azzardati. Heidegger non si presentò mai come un nazista «dialogante», men che mai come un «ponte» con il nemico. Sartre, orgoglioso del proprio radicalismo politico-filosofico, si sarebbe molto inalberato se qualcuno lo avesse paragonato a un «pontiere» e tra i suoi scritti più interessanti, anziché quelli filostaliniani, merita piuttosto di essere menzionata la prefazione del 1962 ai Dannati della terra di Frantz Fanon, summa di ogni teoria sulla feroce violenza politica da esercitare sull'oppressore colonialista (o imperialista): «Uccidere un europeo è prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero». Un paragone possibile è semmai quello con Giovanni Gentile: il grande intellettuale pilastro del regime fascista che non abbandonerà il Mussolini nel tramonto della Repubblica sociale italiana, ma ne incarnerà il volto moderato, conciliatorio, «dialogante ». Si sa quale fu la tragica sorte dell'illustre «pontiere», freddato senza pietà da un commando fiorentino, perché dagli antifascisti armati, in quel tornante drammatico che fu la guerra civile italiana non fu considerato un «pontiere» bensì un fascista, moderato ma pur sempre, tout court, un fascista. Così come Tariq Ramadan è da considerarsi tout court un terrorista?
Interrogativo rozzo, forse. Ma che disvela la sostanza della questione: dialogare con chi vuol dialogare deve prescindere totalmente dalla personalità multipla di chi manifesta una volontà di dialogo che sarebbe stolto ignorare? Non solo, dunque, una questione metodologica, come quando Paul Berman sostiene che «discutere con qualcuno non vuol dire sdraiarsi ai suoi piedi come un tappeto». E anche il riconoscimento delle qualità intellettuali dell'avversario, giustamente sottolineate da Ian Buruma, giacché Ramadan «sta cercando di lavorare seriamente per l'integrazione della sua comunità». Dialogare e discutere con chi, le parole sono ancora di Buruma, «vuol trovare un posto in Occidente per l'islamismo»: come sarebbe possibile opporsi a una scelta tanto saggia, così permeata di realismo politico, così animata dalle migliori intenzioni di evitare la guerra totale e addirittura di incorporare quel tanto di ragione incarnata anche dal peggior nemico? Ma non dovrebbe essere difficile comprendere che un ponte non esiste senza solidi pilastri che lo sostengano e un «pontiere» non è una semplice figura astratta, un puro tramite, un essere disincarnato la cui qualità è solo quella di lasciar transitare qualcosa o qualcuno dall'una o dall'altra sponda. E perciò un dialogante è una figura dotata di una sua identità, che rivendica una sua appartenenza, che si colloca in una delle due sponde che la storia ha trasformato in trincee. E qual è allora l'identità autentica di Tariq Ramadan? Domanda tutto sommato secondaria per chi ha prioritariamente a cuore la conservazione della pace e dell'ordine pubblico, come istituzionalmente deve fare (e lo fa senza risparmio) un ministro dell'Interno come Giuliano Amato o i leader della politica mondiale come Bush, e Blair fino a qualche mese fa, ma decisiva nello scontro delle idee, che nella feroce guerra ideologica che stiamo vivendo da qualche anno a questa parte su scala planetaria riveste un'importanza assolutamente decisiva. Ma, osserva giustamente Ian Buruma, se in una guerra a forti tinte religiose «parli solo ai laici non ti confronti con nessuno». Per i militari il confronto è solo militare, per i responsabili dell'ordine pubblico il confronto è innanzi tutto una questione di polizia, ma per chi ha una responsabilità culturale il confronto non deve essere con tutti, comprese le menti più lontane o, come Tariq Ramadan, che parlano un linguaggio elusivo, inafferrabile, o sembrano oscillare negli estremi di un pensiero sdoppiato, a seconda dell'interlocutore che hanno di fronte? Ma perché allora non porsi la domanda sul perché mai nella storia, mai nel momento decisivo le figure che dialogano e si «confrontano» abbiano abbandonato del tutto, ancora il «paradigma Gentile», il campo cui appartengono? Chiedersi come mai, insomma, è sempre finita male, perché i pontieri lasciano i ponti e si ritirano nell'accampamento della propria comunità d'appartenenza. E chiedersi se questo deserto di precedenti storici non debba indurre a una maggiore prudenza, o quanto meno a un maggior pessimismo sulle sorti del «dialogo» e del «confronto».

Un commento di Magdi Allam sulla fatwa contro Dounia Ettaib e Daniela Santanché:

Ci preoccupiamo di sanzionare i lavavetri e le lucciole, che non hanno ammazzato nessuno, mentre assistiamo inerti ai predicatori d'odio islamici che anche ieri hanno condannato a morte Dounia Ettaib, definendola una «infedele» ed estendendo la minaccia all'onorevole Daniela Santanché.
Tutto ciò avviene sotto i nostri occhi, ha come teatro di operazione il territorio italiano, i protagonisti sono professionisti dell'islam che hanno messo le mani sulle moschee che proliferano al ritmo di una ogni quattro giorni. Mentre le vittime siamo tutti noi italiani, inconsapevoli o irresponsabili, pavidi o ideologicamente collusi, che non vogliamo guardare in faccia alla realtà, che la temiamo al punto da esserci sottomessi all'arbitrio e alla violenza di chi sta imponendo uno stato islamico all'interno del nostro traballante stato sovrano.
Come è possibile che persone che potrebbero rivelarsi terroristi islamici siano potuti entrare nella sede della Provincia di Milano e abbiano avuto l'ardire di depositare la loro sentenza capitale sulla scrivania di una neocittadina italiana che ha da poco subito un'aggressione fisica nei pressi della moschea di viale Jenner a Milano, associandola a una parlamentare che ha subito più di una intimidazione anche da parte del sedicente imam della moschea di Segrate Ali Abu Shwaima?
La verità è che sappiamo tutto e di più sull'attività dei predicatori d'odio islamici nostrani ma preferiamo seppellire la testa sottoterra, non rendendoci conto che a differenza dello struzzo non riemergeremo ma finiremo per suicidarci.
Possibile che gli addetti alla sicurezza non abbiano visto la «fatwa», il responso giuridico islamico, pubblicata negli scorsi giorni sul sito htt p://www.islam-online.it/fatwa_2.htm, gestito dal convertito Hamza Roberto Piccardo, ex segretario nazionale dell'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), in cui si legittima la condanna a morte dell'apostata: «Un considerevole numero di nostri predecessori (Salaf) sono concordi nel dire che non tutti quelli che abbandonano l'Islam debbano essere giustiziati, ma piuttosto quelli che in pubblico dichiarano la loro azione e possono causare Fitna (sedizione,
ndr) denigrando il nome di Allah l'Altissimo, il Suo Profeta (pbsl) o i musulmani. La punizione dell'esecuzione in questo caso serve a proteggere e preservare l'intera nazione dal male che questo individuo indubbiamente porterebbe, e non si tratta di privarlo della sua libertà di credo e opinione. Effettivamente, commettendo un simile atto, l'individuo ha trasgredito violando i diritti di altre persone e dell'intera nazione, che viene prima dei diritti del singolo. La legislazione moderna usa il termine di "Tradimento Supremo" per crimini simili all'atto di abbandonare l'Islam e quindi annunciarlo pubblicamente e condurre una campagna contro l'Islam e l'intera nazione».
La condanna a morte è contenuta nelle «Risoluzioni del Consiglio Europeo di Fatwa e Ricerche», capeggiato da Youssef Qaradawi, l'apologeta del terrorismo suicida islamico, accreditato dall'Ucoii come proprio referente spirituale. A tradurla in italiano ci ha pensato un altro convertito, Abu Yasin Andrea Merighi, responsabile della moschea El Nour di Bologna e a cui il sindaco Cofferati intende regalare una nuova e ben più grande moschea.
Al momento non sappiamo chi ha materialmente consegnato la condanna a morte a Dounia associandola alla Santanché, ma non abbiamo alcun dubbio che nelle moschee e nei siti islamici dell'Ucoii e di altri gruppi radicali islamici si legittima la condanna a morte degli apostati, degli infedeli e dei nemici dell'islam. Continueremo a imitare lo struzzo votati al suicidio nell'attesa che i terroristi islamici attuino la loro giustizia qui a casa nostra?
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