Re Abdallah, intervistato da Le Monde, resta sul vago
e Lucia Annunziata risponde in malafede a una lettrice: disinformazione sul quotidiano torinese
Testata: La Stampa
Data: 04/09/2007
Pagina: 15
Autore: PATRICE CLAUDE E GILLES PARIS - Lucia Annunziata
Titolo: Agli israeliani dico per fare la pace resta poco tempo - Perché in Palestina cresce la disoccupazione
Da La STAMPA del 4 settembre 2007 un'intervista, tratta da Le Monde a Re Abdallah di Giordania.
Che dichiara che gli arabi offrono agli israeliani
 "una integrazione completa, dal Marocco, dall’Atlantico all’Oman e all’Oceano Indiano" . Integrazione che però ha un prezzo, che il re di Giordania non definisce e che i suoi intervistatori non gli chiedono di definire. Se questo prezzo include, come nella proposta di pace della Lega araba, il "rientro" dei "profughi" palestinesi in Israele, comporta di fatto la fine dello Stato ebraico.
Inoltre, Abdallah non chiarisce a nome di chi parla e anche su questo i suoi interlocutori pretendono chiarezza.
Anche la Siria sarebbe disposta a "integrare" Israele ? E le organizzazioni terroristiche che operano a Damasco, in Libano, a Gaza, verrebbero smantellate o potrebbero continuare la loro guerra asimmetrica contro Israele ?

Ecco il testo:


Re Abdallah di Giordania ha cominciato ieri la sua visita in Francia, incentrata sul problema palestinese e la necessità di rilanciare il processo di pace con Israele.
Gli Stati Uniti invocano il rilancio del processo di pace e puntano sulla conferenza internazionale a novembre. Che cosa ci possiamo aspettare?
«Questo rilancio avrebbe dovuto aver luogo l’anno scorso. Ci avviciniamo alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Gli americani concentreranno la loro attenzione - anzi hanno già cominciato - sugli affari interni. E non possiamo dimenticare, che ci piaccia o no, che quando si parla di Israele e del processo di pace ci vuole l’impegno americano. Quindi l’ultima opportunità è adesso. Da dicembre del prossimo anno, chiunque sia il prossimo presidente americano, ci vorranno due o tre anni prima che gli Stati Uniti si possano nuovamente impegnare su questa questione. Per questo sono molto preoccupato. Per ora le informazioni che trapelano dagli incontri tra palestinesi e israeliani sono positive. È incoraggiante perché, di solito, ci sono sempre problemi quando si incontrano».
A che cosa potrebbe portare una conferenza di pace nella quale uno dei principale protagonisti del conflitto, Hamas, non è neanche invitato?
«Non sono i partiti politici a essere invitati, ma le istituzioni e gli Stati. In un mondo ideale, ci saremmo aspettati che le fazioni palestinesi (Hamas e Fatah, ndr) risolvessero i loro piccoli problemi interni. Non è successo. E poi, Hamas è in grado di prendere decisioni in totale indipendenza? No, sappiamo bene che prendere ordini dall’esterno».
Da chi?
«Se Khaled Mechaal (capo dell’ufficio politico di Hamas, espulso dalla Giordania nel 1999, ndr) si è installato a Damasco è per prendere meglio ordini dall’Iran».
Pensa davvero che Israele sia pronto a scambiare terre in cambio di pace?
«La situazione è cambiata. Quello che deve capire Israele è che non si tratta più semplicemente del suo problema con i palestinesi. Ci sono altri conflitti nella nostra regione in cui è implicato. Dal punto di vista degli israeliani, per molti di loro almeno, è facile restare dentro uno Stato-fortezza: è così da trenta, quarant’anni. Ma oggi ci sono altri attori nella regione. L’Iran ha una grande influenza in Libano attraverso Hezbollah, ha influenza nelle strade della Palestina attraverso Hamas. C’è la questione del Libano, della Siria, dell’Iraq, dell’Iran. Non penso che Israele possa permettersi di restare nella sua fortezza per lungo tempo. Penso che gli israeliani comincino a capire che debbono prendere una decisione. La domanda per loro è semplice: volete vivere in eterno come fate oggi, restare questo bastione del "non so che fare" oppure volete integrarvi nella regione? È quello che gli offriamo, una integrazione completa, dal Marocco, dall’Atlantico all’Oman e all’Oceano Indiano. Ma tutto ciò ha un prezzo».
Pensa che siano pronti a pagarlo? A Washington sembra stia riemergendo la vecchia idea di una confederazione tra Giordania e Palestina …
«Se se ne parla a Washington è perché l’idea viene da Tel Aviv. Ma io dovrei stabilire una confederazione con chi, esattamente? Con una entità non definita? Con dei privati? Creiamo prima di tutto uno Stato palestinese, poi potremo eventualmente discutere di un progetto confederale».
La Francia può ancora giocare un ruolo? Sarkozy ha dichiarato il suo attaccamento a una delle due parti in causa...
«Il presidente Sarkozy è un amico di Israele. Non è un problema. Che c’è di meglio di un amico di Israele per far giungere dei messaggi a Israele? Quando ho incontrato per la prima volta Sarkozy, mi ha rassicurato la sua visione, chiarissima, del Medio Oriente. La Francia sarà sempre attiva dal Maghreb al Golfo Persico. Personalmente, ne sono contento».
L’Iraq. La strategia americana sta dando qualche risultato?
«Tutti stiamo aspettando il rapporto che dovrà essere illustrato alla Casa Bianca a metà settembre. Ci sarà una revisione radicale del dispiegamento di truppe nel Paese? Bisognerà adattarsi. Alcuni dicono che la situazione laggiù sta migliorando. Ma in rapporto a che? Credo che sia ancora troppo presto per pronunciarsi sull’Iraq». Copyright Le Monde

Sempre La STAMPA del 4 settembre 2007 pubblica una lettera a Lucia Annunziata e la risposta della giornalista, che essendo stata inviata di Repubblica in Israele per anni, non può essere ignorante in materia di territori occupati.
E dunque appare  in malafede quando cerca di edulcorare il quadro di una società palestinese costantemente  dipendente dagli aiuti e dall'assistenza nei campi profughi, che per questo non ha saputo sviluppare un'economia.
Ecco il testo: 

Perché in Palestinacresce la disoccupazione
Padre Abusahlia ha perfettamente ragione. Non solo gli aiuti economici ai palestinesi non li aiutano - a parte il fatto che la maggior parte non va al popolo palestinese ma nelle tasche di alcuni capi - ma anche li spingono a non cercare una via d'uscita da soli. Il solo mezzo di aiutarli è offrire loro la possibilità materiale e psicologica di lavorare, in un modo o in un altro. Come fa il padre. Bisogna dar loro il gusto di uscirsene da soli, con un minimo di aiuto per cominciare. Proprio come in alcuni paesi europei si fa con i disoccupati.
Bisogna disilluderli sul loro fatalismo ancestrale - che viene loro anche dalla religione. Se non avessero gli occhi bendati dall'odio verso gli ebrei, potrebbero guardare cosa questi ultimi hanno fatto quando sono arrivati in Israele - la loro terra, è vero, ma cosa ne avevano fatto? Assolutamente niente. E gli ebrei, appena arrivati, hanno lavorato questa terra che non dava nulla e l'hanno fatta fruttare. Così i palestinesi, anziché abbandonarsi all'odio e aspettare gli aiuti dall'alto, dovrebbero cercare qualsiasi lavoro, qualsiasi attività, pur di non restare senza far niente. Il padre è un ottimo esempio. Forse sarebbe bene rivolgersi a lui e dare a lui l'aiuto necessario per far lavorare i palestinesi.
COSTANZA THOMPSON PASQUALI

È assolutamente vero che molti degli aiuti che vanno alla Palestina finiscono nelle capaci tasche di corrotti dirigenti. È il male di moltissimi paesi mediorientali (e non solo) la cui classe dirigente può impunemente prosperare proprio a causa della situazione politica locale di tensione, che rende difficile ogni ricambio e ogni pressione dall'estero. Sono dunque d'accordo sul fatto che ai palestinesi sarebbe necessario lavorare indipendentemente.
Ma dove e come dovrebbero lavorare, oggi, i palestinesi? Non so se si è mai recata nei Territori. È una visita necessaria, per chi ha a cuore Israele. La disoccupazione in Palestina è enorme, ed è progressivamente cresciuta in questi ultimi anni, per una ragione molto semplice: l'inasprimento delle tensioni, con conseguente inasprimento dei controlli per entrare in Israele, ha nei fatti troncato ogni possibile mercato del lavoro.
Le principali attività economiche della Palestina sono la manovalanza per Israele e la produzione agricola per esportazione interna verso Israele: entrambe queste attività hanno sofferto molto delle restrizioni militari agli accessi. Peggiori le condizioni di Gaza, che è un unico campo profughi su una spiaggia. Israele ha dovuto difendersi; le restrizioni all'ingresso di palestinesi sono servite. Ma non possiamo nasconderci che queste misure hanno finito col distruggere quel tessuto lavorativo modesto ma operoso intorno a cui per altro Palestina e Israele si sono intrecciate, e che infatti ha continuato a funzionare durante tutta l’occupazione.

Per inviare una e-mail alla redazione della Stampa cliccare sul link sottostante
lettere@lastampa.it