Iraq: una guerra data troppo presto per perduta
in un articolo di Massimo L. Salvadori
Testata: La Repubblica
Data: 27/08/2007
Pagina: 22
Autore: Massimo L. Salvadori
Titolo: Se anche i soldati Usa contestano la guerra in Iraq
La REPUBBLICA del 27 agosto 2007 pubblica un articolo di Massimo L. Salvadori  sulla lettera di sette militari statunitensi impegnati in Iraq pubblicata dal New York Times il 19 agosto.
Salvadori ragiona trattando come verità acquisite un certo numero di assunzioni dubbie, condizionate dall'ideologia o semplicemente false: non c'era legame tra Saddam e Al Qaeda, Saddam non aveva armi distruzione di massa e non lavorava per averle, la maggioranza degli iracheni è contro gli americani,  l'obiettivo della guerra era impadronirsi delle risorse petrolifere.
Ne conclude che la guerra in Iraq è definitivamente persa, e che l'esportazione della democrazia con la guerra conduce sempre al fallimento (anche nel caso di Germania, Italia e Giappone ?).

Ecco il testo, un concentrato di pregiudizi politicamente corretti e un contributo propagandistico a quella sconfitta americana e occidentale che molti auspicano, ma che per fortuna non è ancora avvenuta.

Ecco il testo:


La lettera di sette militari statunitensi impegnati in Iraq pubblicata dal New York Times il 19 agosto resterà, credo, un documento importante nella storia della seconda guerra irachena. Si tratta non solo di una testimonianza illuminante da parte di soldati che parlano per esperienza diretta, ma anche di un´analisi insieme acuta, impietosa e, stando a ciò che è ormai chiaramente sotto gli occhi di tutti, intellettualmente fondata. Occorre inoltre dire che la lettera è un atto di vero coraggio il quale si colloca nella migliore tradizione civile americana.
Questi i punti essenziali del discorso dei sette, che meritano di essere richiamati. Esso parte dall´affermazione nuda e cruda che «il dibattito politico in corso a Washington sulla guerra appare surreale». Prosegue esprimendo il massimo scetticismo verso coloro che «parlano di un conflitto sempre più gestibile» a fronte di una situazione che vede i successi militari americani «vanificati dai fallimenti in tutti gli altri campi». Questi ultimi sono resi evidenti da una scena dominata dall´azione incrociata di estremisti sunniti, terroristi di al Qaeda, milizie sciite, bande criminali e tribù armate, di una polizia e di un esercito iracheno la cui fedeltà non va al governo ma «soltanto alla propria milizia». I tre «più gravi errori» commessi dagli americani – lo smantellamento indiscriminato delle strutture politiche, lo scioglimento dell´esercito iracheno e la creazione di uno sconnesso sistema federale – hanno creato le condizioni di un ingovernabile caos. I risultati sono stati la distruzione del tessuto civile, con due milioni di iracheni finiti nei campi profughi nei paesi confinanti, quasi altrettanti ridotti in baraccopoli, e i «fortunati» barricati «dietro muri di cemento». Poi i sette militari lasciano cadere il colpo di maglio più duro: «Dopo quattro anni dall´inizio dell´occupazione, non abbiamo mantenuto nessuna delle nostre promesse, sostituendo la tirannia del partito Baath con una tirannia della violenza, la violenza degli islamisti, dei miliziani e della criminalità»; e, «se è vero che la nostra presenza può aver liberato gli iracheni dalle grinfie di un tiranno, essa li ha anche privati del rispetto di sé». Infine, la conclusione che certo avrà fatto maggiormente fischiare le orecchie di Bush, dei suoi uomini, di Blair che fu il loro più fermo sostenitore e di tutti i corifei della "guerra democratica" e dell´esercito "liberatore": «Gli iracheni si renderanno presto conto che il modo migliore per riconquistare la dignità è chiamarci per quello che siamo: un esercito di occupazione, e forzarci al ritiro». Il testo dei sette si chiude con una dichiarazione di piena lealtà in quanto soldati, che però non li esime in quanto cittadini dall´esprimere un pensiero che «non vuole essere disfattista, ma piuttosto mettere in luce che stiamo portando avanti una politica con scopi assurdi senza riconoscerne le incongruità». Sì, possiamo davvero dire che questa lettera di alto tenore mette il re d´America impietosamente a nudo. E ora, qualche riflessione stimolata da un testo tanto clamoroso.
La prima è che la guerra irachena è persa per gli americani in una maniera che suggerisce una palese analogia con l´esperienza vietnamita, che ormai anche Bush riconosce ma per sostenere che ritirarsi dall´Iraq sarebbe un errore pari all´essersi ritirati dal Vietnam. La seconda è che appare ormai perduta sia la guerra affidata agli ideali sia quella legata all´esercizio della pura forza; e ciò perché gli uni erano inquinati dalla menzogna e l´altro indebolito dall´inquinamento degli ideali. La terza è che una superpotenza militare (e qui la memoria corre anche alla lezione offerta dalla sconfitta sovietica in Afghanistan) non può tradurre la vittoria iniziale, dovuta ad un sovrastante accumulo di mezzi immensamente superiori, in un successo duraturo se entra in urto con il consenso maggioritario delle parti attive del popolo conquistato, se insomma non dispone delle necessarie risorse politiche per la riorganizzazione politica e civile del territorio. La quarta è che agitare da parte degli occupanti nobili ideali che mistificano la realtà e i fini delle loro azioni costituisce un potente fattore di mobilitazione di coloro i quali si oppongono. Ed è su quest´ultimo aspetto che vorrei ora soffermarmi, poiché esso è in grado di mettere in evidenza la profondità dello scacco subito dalla guerra americana.
Ricordo che agli inizi della guerra fu proprio il New York Times ad ammonire sulle conseguenze negative che avrebbe avuto il porre, come fece l´amministrazione Bush, una guerra avente come scopo primario il controllo sulle risorse petrolifere dell´Iraq in un quadro di egemonia sul Medio Oriente sotto l´insegna per un verso di una "crociata" per l´espansione della democrazia e il rispetto dei diritti umani. Ma Bush tirò dritto, accecato da un trionfalismo sicuro delle sue ragioni e della sua buona stella, facendo appello al diritto dell´America del mondo occidentale di garantire la sicurezza del mondo occidentale contro un dittatore dotato di armi di sterminio di massa, pronto ad usarle e divenuto stretto compagno di Bin Laden. Fu del tutto insensibile al fatto di basare la propria azione su un cumulo di costruite falsità. Non vero era che il motivo fosse la democrazia e non il petrolio, non vero che Saddam, alleato con al Qaeda, fosse coinvolto nell´11 settembre, non vero che disponesse delle armi di distruzione di massa. Non vero dunque che la "guerra ideale" muovesse la guerra reale. Quando le menzogne diventarono palesi al mondo, lo divennero in primo luogo agli iracheni. Non ci si domanda quanto esse abbiano scavato in profondità nella coscienza della popolazione, quanto abbiano favorito il reclutamento delle forze di opposizione all´esercito di occupazione, quanto abbiano contribuito – di questo si tratta – a fornire loro un senso di legittimazione?
Ora l´avventura americana è giunta al capolinea e i suoi peggiori effetti sono di aver portato l´Iraq alla dissoluzione, indotto lo stesso governo "vassallo" a capire che il paese per uscirne deve fare i conti con l´Iran detestato da Bush, moltiplicato le energie del terrorismo internazionale. Resta naturalmente sempre sullo sfondo l´interrogativo su cui i falchi americani non cessano di fare leva: ma non è giusto diffondere la democrazia nel mondo? La risposta l´hanno data i sette militari statunitensi nella loro lettera, e cioè che il modo scelto da Bush in Iraq (ammesso ma non concesso che il proposito fosse quello) ha mostrato che certi mezzi distruggono il fine. Qui si apre l´enorme questione di come si possa favorire la diffusione della democrazia nei paesi che ne sono privati dalle dittature e in cui le condizioni del suo sviluppo risultano estremamente difficili. È un discorso aperto, che vale sempre di essere ripreso e approfondito. In ogni caso, penso che una regola, espressa da tempo dalla saggezza degli antichi, si mostri sempre valida,: "Timeo Danaos, et dona ferentes".

Per inviare una e-mail alla redazione della Repubblica cliccare sul link sottostante rubrica.lettere@repubblica.it