Libanesi detenuti illegalmente in Siria
una denuncia di Amnesty International
Testata:
Data: 16/02/2007
Pagina: 7
Autore: Aldo Torchiaro
Titolo: I fantasmi di Beirut persi nelle prigioni siriane
Dal RIFORMISTA del 16 febbraio 2007, un articolo su una denuncia di Amnesty international.

L'associazione umanitaria una volta tanto si occupa di una dittatura e delle reali violazioni dei diritti umani che vi hanno luogo e non della demonizzazione di una democrazia.

Auspichiamo che Amnesty si occupi presto anche dei soldati israeliani rapiti e scomparsi: per esempio Ron Arad, caduto nelle mani dell'Iran, Ghilad Shalit, rapito a Gaza, Ehud Goldwasser ed Eldad Regev, nelle mani di Hezbollah e Guy Hever, scomparso nel 1997 e probabilmente prigioniero in Siria ( http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3364826,00.html )



Due anni fa, con la macchina sulla quale viaggiava il primo ministro libanese Rafik Hariri, saltava per aria il fragilissimo equilibrio tra le parti in Libano. Quell’omicidio ha innescato reazioni a catena che hanno portato in breve tempo, dalla sollevazione antisiriana alla rappresaglia dei filosiriani, dal tiro al bersaglio di Hezbollah su Israele alla reazione congiunta delle nazioni che hanno promosso l’operazione Unifil, Italia in testa. E non a caso il ministro degli esteri Massimo D’Alema, che sull’impegno in Libano ha investito non poco, ha voluto essere tra i primi a ricordare Hariri: «Attendiamo che sia fatta piena luce sull’efferato crimine che gli ha tolto la vita», ha detto. Chi doveva intendere ha inteso. E sui recenti attentati ai cristiani maroniti: «È il tentativo inaccettabile di compromettere gli sforzi in corso per restituire al Libano un futuro di pace e stabilità». Se ne è parlato persino di più a Roma che a Gerusalemme. Ehud Olmert, ieri ad Ankara, ha trovato soltanto il tempo per una dichiarazione non nuova: «Vogliamo la pace con Damasco, ne saremmo soddisfatti e felici: ma vogliamo anche e soprattutto che Damasco cessi di sostenere il terrorismo e rispetti le regole della comunità internazionale».
Se il nostro paese è così attento a quanto accade in Libano, non è per caso. Da poco investita della responsabilità di guidare l’Unifil, l’Italia scommette sul tavolo libanese la carta della sua promozione a “leading-country” nello scacchiere mediterraneo. La recente conferenza di Parigi, dove la scuola italiana dei vasi comunicanti (ricostruzione economica subordinata alla pace civile) è uscita vincitrice, lega le sorti del paese dei cedri a quelle della Farnesina. E non a caso, nel bilancio di questi primi mesi del governo Prodi, l’iniziativa diplomatico-militare in terra libanese è, vox populi, la più popolare ed apprezzata. E sa bene, il ministro degli esteri, che affinché cessi il vento a Beirut va individuato e spento un ventilatore nascosto da qualche parte, a Damasco.
Gruppi di attivisti per i diritti umani denunciano la presenza di centinaia di libanesi ancora detenuti illegalmente nelle carceri di Assad; la “extraordinary rendition” in salsa siriana potrebbe aver assunto proporzioni impressionanti. Malgrado il regime siriano si ostini a negare ogni addebito, nel novembre 2003 uno squarcio nel velo della censura di Damasco lo hanno operato le Nazioni Unite: la commissione per i diritti umani dell’Onu ha stilato un rapporto sulla presenza di libanesi illegalmente detenuti nelle carceri siriane.
Sarebbero 620 i libanesi attualmente nelle carceri siriane, molti dei quali da oltre 10 anni. Nella lista compaiono - tra gli altri - attivisti, soldati regolari, persino qualche sacerdote maronita. Amnesty International ha rivolto un appello alle autorità siriane. «Devono rivelare urgentemente i nomi di tutti i cittadini libanesi detenuti nelle carceri siriane e permettere loro immediatamente e senza condizioni di incontrare le famiglie e gli avvocati», chiede Amnesty. E rende noto qualche caso tra i pochi certificati. Un prigioniero, Adel Khalaf Aijuri, sarebbe morto nella prigione di Sednaya dopo nove anni di carcere, senza aver potuto ricevere cure mediche. Il libanese Joseph Zughayb risulta morto in carcere, in Siria, nel 1996 in circostanze mai appurate. Radwan Ibrahim è morto durante la sua detenzione in Libano poco dopo essere stato trasferito da una prigione siriana nel dicembre 2000. Gocce d’acqua che filtrano da una vasca ormai tracimante.
Nel 2002, Amnesty International ha ricevuto una lettera dalle autorità siriane che confermava la detenzione di George Ayub Shalawit e Tony Jirgis Tamer, entrambi condannati a 15 anni di carcere con l’accusa di praticare “spionaggio” per Israele.
Ghazi Aad, attivista per i diritti umani rappresentante di Solide, Support of Lebanese in Detention and Exile, e Roger Bou Chaine, direttore dell’Osservatorio Geopolitica Mediorientale, proseguono la loro battaglia in favore dei libanesi detenuti illegalmente in Siria, di cui il regime siriano continua a negare la presenza nelle sue prigioni: «Continuiamo a chiedere informazioni sui libanesi incarcerati, ma in risposta, quando ci rispondono, riceviamo continue minacce». Proprio a Roma si terrà, a metà marzo, una conferenza internazionale per il rispetto dei diritti umani dei detenuti libanesi in Siria.


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