Hamas, Hezbollah, Siria, Iran: tutti innocenti, l'unico colpevole deve essere Israele
in Libano come in Cisgiordania e Gaza
Testata:
Data: 14/02/2007
Pagina: 11
Autore: la redazione - Michele Giorgio - Robert Fisk
Titolo: A Israele non basta - «Siria, Usa, Israele: l'escalation serve a molti» - Bombe su due autobus

Dal MANIFESTO del 14 febbraio 2007 un trafiletto che disinforma

Il governo israeliano si è detto «neutrale» sullo scontro inter-palestinese Hamas-Fath che ha portato all'accordo della Mecca per un governo di unità nazionale. Ma nei fatti sembra già bocciare questa soluzione: ieri il vice-premier Shimon Peres ha detto che a Israele non basta l'impegno di Hamas a «rispettare» i precedenti accordi pace (riconoscimento implicito dello stato ebraico)

annunciare che si rispetteranno gli accordi presi da Olp e Autorità palestinese (mai rispettati), rifiutando però esplicitamente di riconoscerli come validi non significa in nessun modo riconoscere "implicitamente" Israele

 e neppure «il riconoscimento formale» da parte di Hamas ma esige «il riconoscimento attivo nella forma della presenza del gruppo nei negoziati di pace».

Se ne riparlerà nel vertice a tre di lunedì a Gerusalemme Olmert-Abu Mazen-Rice. Intanto, tanto per allentare la tensione, il governo Olmert ha smentito la sospensione «provvisoria» dei lavori di scavo sulla spianata delle moschee a Gerusalemme,

non  è in corso nessun lavoro sulla spianata delle moschee, ma solo la ristrutturazione di un ponte che la raggiunge

che avevano suscitato il furore dei palestinesi e del mondo islamico, e ha confermato che i lavori «andranno avanti».

Disinformazione anche sugli attentati anticristiani in Libano. Michele Giorgio ha scovato il solito analista disposto a insinuare sospetti su Usa e Israele.
Ecco l'articolo "Siria, Usa, Israele: l'escalation serve a molti":


Un attentato per far precipitare il Libano nel caos completo, in una nuova guerra civile ma anche per ricreare quel clima di accuse continue alla Siria di Bashar Assad che interverrebbe nelle vicende interne libanesi. "E' chiaro che deve prendersi in considerazione la possibilità che la Siria abbia qualche responsabilità in questo attentato, ma invito tutti a non arrivare a conclusioni affrettate, a giudizi scontati che fanno solo gli interessi di certe parti internazionali», dice Mouin Rabbani, analista dell'International Crisis Group che abbiamo intervistato ieri qualche ora dopo le esplosioni che hanno sventrato i due minibus nei pressi di Bikfaya.
A chi si riferisce quando parla di «parti internazionali»?
Come dicevo siamo ancora in una fase preliminare, che non ci consente di esprimere giudizi affrettati e proprio per questo non si deve puntare subito l'indice contro Damasco come abitualmente fanno le forze filo-governative libanesi o gli Stati uniti. Bisogna domandarsi invece a chi conviene questa escalation di violenze. Certo non si può non considerare la possibilità che i siriani abbiano interesse a provocare caos per impedire la convocazione del processo internazionale ai presunti organizzatori dell'attentato a Rafik Hariri (il 14 febbraio 2005). Ma è altrettanto vero che tutte le volte che in Libano esplode la violenza tutti attaccano la Siria mettendola nell'angolo e, quindi, è lecito chiedersi perché mai Damasco interverrebbe in questo modo se poi a pagarne gli alti costi politici e diplomatici è proprio il regime di Assad.

Ma quali sarebbero "gli alti costi politici e diplomatici " pagati dalla Siria, che continua ad essere considerato un interlocutore per la stabilizzazione del Medio Oriente in Europa e persino negli Stati Uniti?

La verità è che troppe parti, anche esterne come Stati uniti e Israele, intervengono nelle vicende interne del Libano per raggiungere i loro obiettivi strategici. Non si può sottovalutare l'esito del conflitto dello scorso anno in Libano del sud che per Israele è stato fallimentare. Il governo di Ehud Olmert ne è uscito a pezzi, soprattutto non è riuscito ad ottenere il disarmo di Hezbollah. Non è un mistero che Washington e Tel Aviv si aspettano dal governo di Fuad Siniora e dallo stesso contingente dell'Unifil (Nazioni unite) l'uso della forza verso Hezbollah, alleato della Siria e dell'Iran. E anche questo è un fattore da considerare con grande attenzione quando si parla di destabilizzazione del Libano.

L'interesse di Israele è che in Libano vi sia uno Stato forte in grado di disarmare Hezbollah, non la guerra civile. E che la società civile contraria al dominio siriano e all'avventurismo bellico di Hezbollah possa esprimersi, non che sia terorrizzata.

Subito dopo l'attentato, che ha preso di mira un'area cristiana, qualcuno ha ipotizzato un coinvolgimento di estremisti islamici, di gruppi salafiti legati ad Al Qaeda, sottolineando che queste formazioni hanno la loro roccaforte nel campo profughi palestinese di Ein Al-Hilwe. Lei cosa ne pensa?

Tendo ad escludere questa possibilità perché l'obiettivo dell'attacco mi pare più strettamente collegato alle vicende interne libanesi che a quello che generalmente viene definito come il «jihad globale». La cosa che però mi preoccupa è questo mettere di nuovo al centro dell'attenzione i profughi palestinesi, che come ben sappiamo in passato hanno pagato un prezzo altissimo, soprattutto in vite umane, solo per il fatto di essersi rifugiati in Libano dopo l'espulsione da Israele. Non vorrei che qualcuno in Libano cerchi di utilizzare l'accaduto per rilanciare accuse ai palestinesi, per ricreare un clima di caccia alle streghe indicando nel campo profughi di Ein Al-Hilwe la roccaforte dell'integralismo armato, da smantellare ad ogni costo. Peraltro le roccaforti di questi gruppi salafiti non sono certo solo ad Ein Al-Hilwe ma anche a Tripoli e in altri centri abitati del nord del Libano. Le strumentalizzazioni sono uno dei pericoli maggiori in questo clima e mi auguro che a farne le spese non siano i palestinesi che, peraltro, oggi hanno un peso politico quasi nullo nelle vicende libanesi.

Robert Fisk, in un articolo pubblicato anche sull'UNITA'  adotta una strategia diversa per scagionare preventivamente la Siria: i libanesi accusano gli stranieri perché rifiutano di guardare alla realtà delle lotte intestine che li dilaniano.
Il ragionamento dovrebbe riguardare per Fisk anche Hezbollah.
Ma come, ci si chiede, quest'ultimo non era un "partito libanese"?

Naturalmente Siria e Iran agiscono in Libano attraverso loro agenti locali. Questo però non significa che non abbiano anch'essi un ruolo.


Viaggiavano a dieci minuti di distanza l’uno dall’altro. Erano autobus di pendolari, che trasportavano povera gente dalla cittadina montagnosa di Bikfaya verso la costa. Un comodo obiettivo per qualcuno che mirava a esasperare la comunità cristiana libanese, a meno di 24 ore dalle manifestazioni di massa che oggi ricorderanno il secondo anniversario dell’assassinio di Rafiq Hariri. In genere i killer che colpiscono il Libano prendono di mira figure pubbliche, politici, giornalisti, ma ieri, in quella che voleva chiaramente essere una carneficina, hanno ucciso un conducente di autobus, una donna cristiana, un lavoratore egiziano.
Due ordigni riempiti di sfere metalliche nascosti sotto i sedili dei due autobus da qualcuno che vuole la guerra civile.
L’intero Libano si è posto la stessa identica domanda: lo scopo dell’attentato è far esplodere disordini nelle manifestazioni di oggi? Perché se Beirut riuscisse a superare indenne le emozioni e la rabbia dell’anniversario ­ un anno da quando l’ex primo ministro Hariri saltò in aria con il suo corteo di automobili insieme ad altre 21 persone ­ allora il Libano potrebbe salvarsi. Se invece scoppiassero disordini, allora lo spettro della guerra civile si farebbe ancora più reale. Oggi, come dicono qui a Beirut, è il Giorno.
La Beirut che conta, com’è ovvio, ha subito condannato la strage di ieri. «Un altro tentativo dei terroristi di esercitare il controllo sul Libano con il sangue e la repressione», è stato il commento della parlamentare Nayla Moawad. Sostenitrice del governo, suo marito fu vittima di un attentato pochi minuti dopo aver giurato come presidente, quasi vent’anni fa. E Bikfaya ­ il teatro degli assassini di ieri ­ è la città natale della famiglia Gemayel, dell’ex presidente Amin Gemayel che è attualmente ospite del governo statunitense a Washington, di suo figlio Pierre, ucciso nella sua macchina lo scorso novembre. È stato un tentativo di colpire al cuore le falangi di Gemayel? «Mani straniere», così Amin ha descritto gli assassini.
Ma in Libano sono sempre «mani straniere», è sempre qualcuno da «fuori». Ecco perché i libanesi chiamano ancora la loro guerra civile «la guerra degli altri». E chi sono, questi «altri»? I siriani ­ gli imputati favoriti di Washington ­ o Hezbollah (come sopra)? Oppure gruppi rivali cristiani, come quelli del generale Michel Aoun, che sostiene l’iniziativa di Hezbollah per far cadere il governo di Fouad Siniora sostenuto dagli americani, che tra i suoi più fedeli alleati include Gemayel, Saad Hariri (figlio di Rafiq) e l’ex leader delle milizie cristiane Samir Geagea? O ancora qualcuno che vuol far credere che siano stati Aoun o Hezbollah o i siriani?
Da Washington, Amin Gemayel ha proclamato che «i libanesi non uccidono altri libanesi» ­ la solita vecchia illusione che ha sempre impedito a questo tormentato Paese di discutere seriamente di una guerra civile che fece 150mila vittime tra il 1975 e il 1990 e che oggi si staglia di nuovo all’orizzonte come una di quelle tipiche nubi tempestose dell’inverno libanese.
Le bombe sugli autobus dei pendolari hanno ferito almeno 20 passeggeri. C’erano almeno 50 persone a bordo: nelle intenzioni degli attentatori sarebbero dovute morire tutte. I primi ad arrivare sul posto, i negozianti delle vicinanze, ne hanno trovate molte che urlavano riverse sulla carreggiata, scaraventate lontano dall’esplosione. Il primo autobus a esplodere ­ la parte posteriore del tetto, incurvata, assomigliava misteriosamente ai rottami dell’autobus fatto esplodere a Londra il 7 luglio del 2005 ­ aveva appena raggiunto il villaggio di Ein Alaq, a sud di Bikfaya, la fredda e ventosa cittadina cristiana nel Metn.
I soccorsi sanitari erano appena giunti sul posto quando il secondo mezzo ­ i bus dei pendolari della linea che collega Bikfaya alla costa partono ogni dieci minuti ­ si è avvicinato ed è esploso. Centinaia di persone sono scappate dalla strada per la paura di una terza bomba. Come ha osservato un testimone con inconsapevole ironia, «gli autobus non hanno colore politico». Ma naturalmente in Libano ce l’hanno. Tutto qui ha un colore politico ­ ed è questo il motivo per cui è così facile rimestare e surriscaldare il brodo settario. Il cuore delle celebrazioni odierne sarà la tomba di Rafiq Hariri nel pieno centro di Beirut, alle spalle della grande moschea da lui costruita ma a soli cento metri dalla tendopoli abitata dagli Hezbollah, dai seguaci di Aoun e da altri oppositori del governo guidato dal vecchio amico di Hariri, Fouad Siniora.
Le linee della battaglia sono state tracciate da tempo. Sunniti contro sciiti, cristiani maroniti contro cristiani maroniti e ­ nel caso dei seguaci di Aoun ­ maroniti contro sunniti. Il termine ‘battaglia’ è difficile da scrivere. Qui ogni volta che usi l’espressione ‘guerra civile’ hai il timore di aiutare qualcuno a provocarla. Oggi, tuttavia, i politici parlano apertamente di questa terribile possibilità e le voci che circolano in ogni comunità, secondo cui grandi quantitativi di armi da fuoco stiano entrando in città, non possono più essere ignorate.
La scoperta fatta dall’esercito libanese di un camion carico di armi nel quartiere di Hazmieh ­ armi di cui gli Hezbollah hanno apertamente rivendicato la proprietà ­ ha causato un piccolo terremoto negli animi di coloro che più temono il conflitto civile. Perché questa organizzazione sciita ha bisogno di queste armi, ora? E se queste piccole armi sono arrivate dalla valle della Bekaa, come parrebbe, perché farle passare attraverso il quartiere musulmano-cristiano di Hazmieh? Il governo siriano solo una settimana fa ha annunciato di aver bloccato un carico di armi al confine mentre stava per far ingresso in Libano. Una sorta di autopromozione in stile ‘legge e ordine’ che molti libanesi hanno fatto fatica a digerire, ma che potrebbe benissimo corrispondere a verità.
Lo schieramento pro-Hariri ha invocato una “massiccia” partecipazione alla manifestazione di oggi. Geagea, i cui seguaci una volta bombardarono una chiesa a nord di Beirut nel vano tentativo di persuadere i cristiani di essere sotto attacco degli Hezbollah, afferma che le proteste «devono essere una civile e pacifica manifestazione di democrazia e di libera opinione... alla faccia di tutti quelli che stanno cercando di spaventarci».
Il Gran Mufti sunnita, Sheikh Mohamed Qabbani, ha indetto una preghiera collettiva cristiano-musulmana per l’una del pomeriggio ­ l’ora dell’assassinio di Hariri due anni fa. La vedova del leader assassinato, Nazik, una donna di grande dignità di cui la maggioranza dei libanesi ha dimenticato le origini palestinesi ­ ha sollecitato il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah a consentire che l’evento riunisca il popolo libanese.

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