Per Igor Man tutti buoni tranne Israele
come il quotidiano della Fiat disinforma i suoi lettori
Testata: La Stampa
Data: 10/02/2007
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: Hamas-Fatah il bacio sulle barbe

Adesso che Fiamma Nirenstein scrive sul GIORNALE, pensiamo con una certa pena ai lettori della STAMPA, lasciati in balia di Igor Manzella, detto Igor Man, rimasto solo alla guida dei commenti mediorientali. L'articolo uscito oggi, 12/02/2007, in prima pagina, dal titolo " Hams- Fatah, il bacio sulle barbe " ne è la prova.  Contiene tutto il Manzella-pensiero (si fa per dire), cioè il solito tentativo di presentare il terrorismo sotto una veste accettabile. Di Hamas di sottolinea quindi la vocazione " religiosa " e " benefica ", di Fatah la volontà laica citando con nostalgio quel gran criminale che è stato Arafat, si esalta la  " tregua " e si dà per scontato il riconoscimento di Israle quando non è vero per niente. L'assassinio di Rabin è poi la cusa vera della mancata pace fra i due Stati (!).Complimenti al giornale della Fiat, che da quarant'anni instilla disinformazione ai suoi lettori. Oggi ancora di più, dopo che Fiamma Nirenstein se n'è andata.

Ecco il pezzo:

L’accordo fra Al Fatah (i palestinesi nati dalla costola laica di Arafat) e Hamas (i palestinesi religiosamente legati all’irredentismo foraggiato dalla Teocrazia iraniana) è stato firmato ieri alla Mecca.
Sancisce la decisione, definita «storica», di formare un governo palestinese di unità nazionale. Il sospirato accordo, fermissimamente voluto dal Sovrano dell’Arabia Saudita, Abdallah, stabilisce che il nuovo esecutivo «rispetterà le risoluzioni dell’Onu e gli accordi firmati in passato dall’OLP». Codesti accordi si riassumono, in fatto, nel riconoscimento di Israele che, a sua volta, implica la rinuncia alla violenza, giusta la nutrita serie di risoluzioni delle Nazioni Unite.
Habemus pacem finalmente? Niente affatto.È un accordo di mettersi d’accordo. Perché palestinesi laici e palestinesi religiosi sono entrambi stremati.

Nel mondo islamico, in quello arabo in particolare, è tremendamente importante non perdere la faccia. Come poteva Hamas (cui pesa assai la contrapposizione armata con Al Fatah) rinnegare «ufficialmente» la sua ragion d’esistere, quella di distruggere Israele? Ci vollero anni e anni, invero difficili, per convincere Arafat a «riconoscere» Israele, segnando una svolta storica davvero, che vedemmo giorno dopo giorno farsi sempre più problematica sino a dissolversi nello scontro, nel sangue. Furono spesi milioni di dollari e oceani di parole dopo gli accordi di Oslo, un primo passo, rozzo finché si vuole, ma chiaramente in direzione d’una pace in buona e dovuta forma.
L’assassinio di Rabin uccise con lui ogni speranza di pacifica convivenza di due Stati in Terra Santa: uno ebraico, uno palestinese. La politica a zigzag di Sharon, una sorta di venefica doccia scozzese irta di contraddizioni tanto da risultare alla fine indecifrabile, non soltanto ha sparigliato le carte ma, più grave ancora, ha fatto da diabolica flebo iniettando nelle vene di Hamas sete di violenza e bulimia politica. Stando così le cose e non potendo, né Al Fatah né Hamas, dir no a re Abdallah che è sì oggetto di ampio rispetto ma anche accorto distributore, spesso generoso, di Dollari, s’è fatto ricorso a una pratica esclusivamente araba, quella del sottinteso. Il fatto che Hamas concordi con Al Fatah di mettersi insieme per governare, sottintende che Hamas «prende atto» contestualmente degli accordi internazionali via via sottoscritti da Arafat e dai suoi successori; così, in blocco. «Compri uno, prendi tre». Nel «tre» per «uno» quest’ultimo è il riconoscimento «de facto» di Israele.
Stringendo la mano di Khaled Meshaal (Hamas) sotto l’occhio compiaciuto di re Fahd, il pacifico palazzinaro Abu Mazem avrebbe detto qualcosa di molto arabo al leader di Hamas. Qualcosa come «a Dio piacendo tutto ritornerà come nulla fosse accaduto tra di noi». Una variante dell’espressione araba bos ilha che significa «baciarsi le barbe». Venne fuori subito dopo la strage dei fedayn a opera dei beduini di re Hussein, nel Settembre Nero del ’70, e ha funzionato non poche volte: seppelliti i morti, i leaders si sono abbracciati e baciati («sulla barba») risolvendo all’araba anche terribili vertenze.
Poiché, tuttavia, il problema per ambedue le fazioni palestinesi è quello di una boccata d’ossigeno (tradotta in dollari fa un miliardo di verdoni) gli antagonisti formalmente riappacificati dal munifico Re dei Re, custode insigne dei Luoghi Sacri dell’islam concordano sulla necessità di accordarsi. In fatto sarà una tregua, forse di lunga durata, durante la quale ognuno dei due schieramenti cercherà di plagiare l’altro. Hamas non vuole (forse non può legata mani e piedi com’è a Teheran e a Damasco) rinunciare al suo crespo disegno: combattere costi quel che costi Israele, uno o trent’anni, non importa, per infine «cancellarlo dalla faccia della Terra». Riesce difficile pensare che il pacioso Abu Mazem segua Hamas su codesta perigliosa strada. Non ci stupiremmo se più prima che poi egli si spogliasse d’ogni veste ufficiale riparando in Svizzera.
Hamas, converrà ripeterlo, «nasce bene»; come associazione impegnata nell’assistenza dei diseredati giusta la predicazione di Maometto. Hamas, acronimo di Harakat al-Mukawma al-Islamiya (movimento di resistenza islamica) è stata creata, nella metà degli Anni 80, come movimento culturalreligioso in competizione con la laica Olp. E mentre il movimento palestinese, orfano del misirizzi Arafat, è alla patetica ricerca d’un leader che sappia conciliare dignità e sovranità nell’ambito della ineluttabile convivenza con Israele, i quadri del gruppo più importante, Al Fatah, appaiono in piena crisi esistenziale. Frastornati da un irredentismo suicida che subisce il fascino del verbalismo antisemita della dirigenza iraniana, i più accorti tra gli za’im palestinesi sono alla ricerca di un Mandela palestinese. Molti lo identificano in quel Marwan Barghouti che pur schiacciato da quattro ergastoli «comunica» con la sua gente a dispetto del carcere di massima sicurezza. In fatto grazie agli israeliani che lasciano che i suoi messaggi escano dalla cella per diffondersi in tutta la Palestina storica. (Gli incidenti di ieri sulla Spianata dei Templi, il luogo che accese il rogo della prima intifada, hanno all’origine un vecchio contenzioso stradale, erano per così dire annunciati).
A quanto se ne sa, nell’attuale leadership israeliana, angustiata da scandali sul tipo dei nostri, ma spasmodicamente impegnata a passare a setaccio tutta la già impeccabile struttura militare inopinatamente messa in difficoltà dagli «straccioni» di Hezbollah; nella camera dei bottoni, a Gerusalemme va e viene la tentazione di considerare con un grano in più di pragmatismo l’eventuale spendibilità della «carta Barghouti». Anche a Israele «l’accordo per un accordo» siglato enfaticamente alla Mecca, può giovare. Perché una tregua la produrrà. Una pausa di riflessione fa comodo a tutti. Ma ogni ragionevole scenario politico rischia di rimaner soffocato da un inedito cappio: il cordone ombelicale con cui Teheran alimenta le masse arabe predicando rivolta continua nel segno d’un Califfato del Tremila. Vendicatore delle Crociate degli infedeli.

Invitiamo i nostri lettori a scrivere alla Stampa, per protestare contro linterpretazione scorretta dei fatti data da Igor Man. cliccare sulla e-mail sottostante.

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