L'Arabia saudita si allea con gli Stati Uniti contro l'Iran
e insieme all'Egitto tenta di fermare la guerra civile palestinese
Testata: Il Foglio
Data: 31/01/2007
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: Perché Riad ha scelto il traduttore del re come ambasciatore in America
Dal FOGLIO del 31 gennaio 2007, un articolo sull'allenza americano-saudita per contenere l'Iran:

Washington. Il nuovo ambasciatore saudita negli Stati Uniti è Adel Jubair. A differenza dei suoi predecessori, Jubair non è un principe e non ha nemmeno legami di parentela con la casa reale. La sua nomina, però, non è arrivata inaspettata. Quando lo scorso dicembre Turki al Faisal ha dato le proprie dimissioni, a Riad il nome di Jubair era subito circolato come quello del possibile successore. Nessuno, però, ci aveva creduto sul serio. Nelle redazioni dei quotidiani sauditi si diceva che re Abdullah fosse ancora indeciso tra quattro candidati. Al caffè Milano di Washington, frequentato dalla stampa araba, i giornalisti scommettevano che Jubair non avrebbe avuto alcuna possibilità. Sembrava infatti strano che la carica di nuovo ambasciatore negli Stati Uniti, una delle più importanti del regno, fosse affidata a qualcuno senza sangue blu e conosciuto da tutti soltanto per essere il “traduttore del sovrano”. Dopo tutto, i diplomatici del Golfo, anche nelle regioni più sperdute del globo, sono sempre stati degli “emir”.
Abdullah ha invece scelto di stupire tutti, rivoluzionando una lunga tradizione di nomine reali. Jubair, consigliere del re, quarantenne, un po’ calvo, ha studiato alla North Texas University e alla prestigiosa Georgetown University di Washington. Conosce bene gli Stati Uniti, ha modi occidentali e parla un inglese ottimo. Non è affatto privo di esperienza diplomatica e conosce già i corridoi della capitale americana. Ha già lavorato all’ambasciata saudita come traduttore fidato del principe Bandar bin Sultan, capo della Sicurezza nazionale, ambasciatore per 23 anni negli Stati Uniti e amico della famiglia Bush. In passato il neoambasciatore si è definito un “comune saudita”, enfatizzando la sua “inferiorità ai principi”. A dispetto della professione di umiltà, però, Jubair sembra incarnare il sogno americano in versione saudita: poter diventare qualcuno anche senza essere un reale.
Fino a oggi era semplicemente conosciuto come “l’uomo delle pubbliche relazioni” di Bandar. In questo suo ruolo è riuscito a entrare in contatto e a farsi apprezzare da funzionari di alto livello del Dipartimento di stato americano. In poco tempo, Jubair è riuscito anche a farsi notare dal sovrano Abdullah. Nelle visite del re a Washington, fin dai tempi di Fahd, Jubair è sempre stato alla sua destra, a tradurre meticolosamente le conversazioni con i rappresentanti statunitensi e a parlottare fittamente con lui.

Le bizze del predecessore
Negli ultimi anni, il re saudita Abdullah non nascondeva la propria simpatia nei suoi confronti e riponeva in lui grande fiducia, tanto da arrivare a nominarlo suo consigliere personale. Abdullah ha probabilmente pensato che potesse essere un ottimo successore dello scomodo Turki. Il principe Faisal, infatti, non gode più della stima del sovrano come un tempo. E adesso che il re sta cercando di compattare l’unità della famiglia contro la minaccia nucleare di Teheran, Abdullah non ama sentire la voce fuori dal coro di Turki, che fa appello alla mediazione e al dialogo con l’Iran.
Il quotidiano saudita Asharq al Awsat ha scritto che il principe Faisal – ex capo dell’intelligence di Riad, prima di dimettersi pochi giorni prima degli attentati dell’11 settembre – se ne era andato da Washington per ottenere un incarico più importante. Date le condizioni di salute di Saud al Faisal, suo fratello e ministro degli Affari esteri, a Riad circolava voce che Turki lo avrebbe presto sostituito. Lo scenario più probabile, adesso, sembra però essere un altro. Lunedì, sull’emittente al Arabiya, Saud, che si è definito il “servitore” di Abdullah, è infatti apparso di nuovo in grande forma. Al summit di Parigi III per il Libano, inoltre, ha esposto con chiarezza le posizioni della casa reale contro la “minaccia sciita”, dimostrando lealtà al sovrano.
Abdullah non nasconde di affidarsi al principe Sultan per delineare una strategia contro l’Iran. Recentemente, Bandar si è anche recato a Teheran per incontrare la Guida suprema, Ali Khamenei, con un messaggio di disappunto contro il governo iraniano. La nomina di Jubair – che negli anni si è conquistato anche la fiducia del principe – conferma ora la volontà del sovrano di rafforzare la posizione di Bandar all’interno della casa reale. In futuro Jubair potrà giocare un ruolo importante a suo favore nelle lotte di potere tra principi. In questo modo, Abdullah è sicuro anche di rafforzare ulteriormente i rapporti con Washington, senza essere costretto a tener conto delle bizze da primadonna che avrebbe avuto Turki.

Un articolo sulla guerra civile interpalestinese:

Roma. A un anno dalla vittoria di Hamas alle elezioni, è facile prevedere che i rinnovati colloqui per un governo di unità nazionale tra Abu Mazen e Khaleed Meshal falliranno da qui a poche settimane. Non si vede quale piattaforma comune possa unire una al Fatah che ha appena formalmente accusato Hamas di aver tentato di uccidere Abu Mazen con un attentato a Gaza e soprattutto dopo che la guerra civile a bassa intensità ha fatto non meno di 200 vittime in pochi mesi. Il punto è, infatti, che non sono state vittime qualsiasi o di faide locali: l’una e l’altra parte hanno effettuato esecuzioni chirurgiche di uomini chiave per il controllo militare e politico di Gaza, a partire dal generale Moussa Arafat, cugino di Yasser Arafat, responsabile della sicurezza a Gaza, trucidato da Hamas il 7 settembre 2005. Da allora è stato un susseguirsi di assassini mirati di dirigenti centrali per l’una e l’altra organizzazione, per preparare al meglio lo scontro definitivo, inclusi i tre bambini di Bahaa Baaloucha, dirigente di al Fatah, massacrati davanti alla loro scuola per neutralizzare il padre. E’ una dinamica che sfugge a quegli analisti occidentali che stentano a comprendere le ragioni per cui Hamas, dopo la vittoria, ha rifiutato le regole della politica che le imponevano di accettare, quantomeno pro forma, le tre condizioni poste dalla comunità internazionale, farsi recapitare così le vagonate di miliardi di dollari dell’occidente, rafforzare il suo impianto politico a Gaza e in Cisgiordania, emarginare, gestendo quei fondi, una al Fatah in crisi di consenso e costruire una rete di relazioni internazionali che avrebbero obbligato Olmert a un rapido ritiro dai Territori. Ma Hamas segue le regole del jihad, non della politica: rifiuta l’esistenza di Israele per ragioni religiose, non nazionaliste, e agisce di conseguenza in frontale contrasto con un Abu Mazen che invece rappresenta un puro nazionalismo arabo. Nel 1936-1939 la stessa dinamica portò il Gran Muftì, predecessore di Hamas (che intitola le sue brigate al suo leader militare, Ezzedin al Qassam), a scatenare una guerra civile (e contro i sionisti) che costò 6.000 morti ai palestinesi, di cui ben 4.500 uccisi da mano palestinese. Il suo antagonista, predecessore di Abu Mazen, era Raguib Nashashibi. Finì come si sa, con il di più dell’uccisione di Nashashibi nel 1941 a Baghdad e poi del suo sponsor, il re Abdullah di Giordania, nel 1951 a Gerusalemme, su ordine sempre del Gran Muftì. Questa stessa dinamica religiosa che dilania da ottant’anni la leadership palestinese – di cui il tentennante Arafat fu il più chiaro simbolo – spiega l’atteggiamento confuso dei due paesi che più potrebbero fare, ma meno fanno, per aiutare la Palestina. L’Arabia Saudita – in rotta con Arafat per la sua alleanza con Saddam Hussein nel 1990 sul Kuwait – ha finanziato per anni Hamas, condividendone il rifiuto religioso della “Entità Sionista” e solo ora la osteggia, dopo avere compreso che ha cambiato partner e si è alleato con l’Iran di Ahmadinejad. L’Egitto ha ben chiara la dinamica jihadista che condanna da sempre i palestinesi al fallimento e illude l’Europa con promesse di pacificazione, attraverso l’opera di Omar Suleyman, capo dei servizi segreti. In realtà, però Mubarak – appresa la lezione dell’assassinio di Anwar el Sadat – ha solo mirato a evitare il contagio palestinese e ha sempre permesso a Hamas, in cambio della non ingerenza in Egitto, di usare la frontiera per contrabbandare a Gaza armi e consiglieri iraniani. Anche la partnership araba, dunque, ha ben poca voce in capitolo per disinnescare la guerra civile palestinese che ormai può essere affrontata dalla comunità internazionale solo “limitando il danno”, rafforzando al massimo la capacità di Abu Mazen di mostrare a Hamas una deterrenza tale da rinviare uno scontro che resterà però sempre acceso sottotraccia.

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