Disinformazione sulla guerra contro i terroristi islamisti
sui due quotidiani
Testata:
Data: 07/09/2006
Pagina: 1
Autore: Carlo Bonini -Roberto Zanini
Titolo: Il fallimento di Camp Delta - La seconda guerra al terrore
Carlo Bonini sulla REPUBBLICA del 7 settembre 2006 affronta in modo evidentemente falsato il discorso di Bush sui processi ai capi di Al Qaeda.
Bush ha negato l'uso della tortura, che nell'analisi di Bonino sembra invece essere stato amesso.
Il processo per i capi di Al Qaeda che Bush promette richiede, analogamente al processo di Norimberga, un'elaborazione giuridica che non contrasta, ma corregge e completa gli strumenti che l'America si è già data per affrontare una situazione eccezionale.
E il fatto stesso che al futuro processo ci saranno degli imputati, dia lto livello nella gerarchia del terrore, testimonia dei successi della "guerra al terrorismo", presentata da Bonini come un totale fallimento.
Ecco il testo:
    

9/11", "9/6". Cinque anni di "Guerra al Terrore" consegnano alla sua storia un´altra data simbolica. Ancora un giorno di settembre. La Casa Bianca comunica al mondo la sua resa alla forza dei princìpi del diritto internazionale e l´ammissione della loro ripetuta violazione. Il presidente degli Stati Uniti conferma, per la prima volta, l´esistenza di un programma segreto di detenzione e interrogatorio dei sospetti di terrorismo condotto dalla Cia, annunciandone di fatto lo smantellamento. Spiega di voler riconoscere l´autorità della Convenzione di Ginevra.
Ripristinando sul suolo americano e nei territori occupati dalle Forze armate americane in Medio Oriente la categoria dei "prigionieri di guerra", cancellata con ordinanza presidenziale l´11 novembre del 2001, quando era stato battezzato l´ibrido senza diritti dell´"enemy combatant", il "combattente nemico", il prigioniero in tuta arancione cui tutto è negato: la certezza della pena, il giusto processo, la data verosimile della fine della propria espiazione, la dignità e persino il nome. Comunica al Congresso che si piegherà alla decisione della Corte Suprema disponendo la consegna di chi oggi è detenuto a Guantanamo, o nei bracci di sicurezza di quale penitenziario federale, alla giustizia di corti marziali governate da una legge che dovrà rispettare i princìpi costituzionali e che, soprattutto, sarà affidata alla volontà e al voto del Congresso, e non, come sin qui è stato, alle "ordinanze" del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Indica, in un futuro non lontano, la chiusura di Camp Delta, la prigione della base navale di "Guantanamo", isola di Cuba, dove ancora 455 uomini cuociono in gabbie d´acciaio.
Nella mossa di Bush c´è il riconoscimento di un fallimento. Sul piano politico, evidentemente, come osservava in questi giorni il settimanale britannico The Economist, denunciando, nel quinto anniversario dell´11 settembre, "Il paradosso della libertà", «prima vittima di una guerra combattuta in suo nome». Ma anche, e soprattutto, militare, strategico e di intelligence. George W. Bush annuncia di voler deporre gli arnesi della guerra nera al Terrore, perché costretto a prendere atto che sono risultati inservibili, ancorché costosi. La prigione di Guantanamo - per il cui ampliamento non più tardi del 15 giugno dello scorso anno le casse federali hanno sostenuto una spesa aggiuntiva di 30 milioni di dollari appaltati alla "Halliburton, Kellogg Bown & Root Services" (di cui il vicepresidente Dick Cheney è stato amministratore delegato) - non ha prodotto un solo risultato di intelligence degno di nota. Almeno negli ultimi due anni. Collocati agli antipodi del loro mondo, tagliati fuori da ogni possibile forma di comunicazione, i detenuti di Camp Delta, ammesso ne avessero all´inizio, hanno perso ogni potenziale valore di intelligence. Essiccati al sole delle gabbie in cui vengono lasciati impazzire, i prigionieri non hanno più alcuna informazione da consegnare o, se ne hanno, le loro "confessioni" sono materiale irrimediabilmente invecchiato e dunque inutile.
L´illusione coltivata da Casa Bianca e Pentagono è del resto nei numeri (a Guantanamo, dagli oltre 650 detenuti del 2002 si è passati ai poco più di 400 di oggi), ma anche nelle analisi di voci non certo politicamente sospette. Se infatti Bush ha dovuto quantomeno difendere ieri le ragioni della sua scelta di cinque anni fa, e dunque l´apertura di Guantanamo come del programma speciale di detenzione della Cia («Le informazioni raccolte in questo modo ci hanno offerto informazioni necessarie ad arrestare tutti gli esponenti di alto livello di Al Qaeda»), non più tardi del 19 settembre dello scorso anno, un´autorevole voce della sua Amministrazione doveva riconoscere la pochezza, se non altro statistica, degli esiti della Guerra Nera. Quel giorno, Frances Fragos Townsend, assistente del direttore del Dipartimento per la Sicurezza interna (Homeland Security) spiegava: «Dall´11 settembre, sono stati arrestati Khaled Sheikh Mohammed, l´architetto delle stragi e chi con lui cospirò, Ramzi Bin Al Shibh. Uno dei vice di Osama Bin Laden, Muhammad Atef, è stato ucciso in Afghanistan alla fine del 2001. E´ stato arrestato in Pakistan il numero tre di Al Qaeda, Abu Faraj Al Libbi, sono stati congelati beni e disponibilità di quattrocento individui». Tutto questo - aggiungeva - a fronte di «83.000 cittadini stranieri accusati di partecipazione o sostegno ad attività terroristiche».
Quattrocento su ottantatremila.
E´ vero che i numeri possono dire tutto e il contrario di tutto. Ma a prenderli nella loro aridità statistisca, si capisce forse perché il costo politico di prigionieri senza nome, né diritti, e la rete di prigioni Cia battezzate "buchi neri", nei Paesi del Terzo Mondo e dell´Est Europa, non ne giustificassero più l´esistenza. Se è corretto - come documentato recentemente dal Dipartimento della Difesa - che nei «centri di detenzione sotto il controllo americano», dentro e fuori i confini nazionali, sono transitati in questi anni 14.500 prigionieri accusati di «terrorismo», è significativo osservare come, a fronte di questa cifra a tre zeri, Bush abbia potuto vantare ieri di fronte all´America e al mondo il peso di soli 14 detenuti.
Alla Cia viene insomma oggi ordinato di chiudere un programma a basso rendimento informativo e alto costo politico. Interno, certo. Ma soprattutto internazionale. Lo scorso giugno, una commissione della Nazioni Unite e il rapporto speciale del Consiglio di Europa (il "dossier Martin"), avevano denunciato la violazione dei diritti umani a Guantanamo, il ricorso alla tortura e la violazione delle Convenzioni Internazionali per il ricorso estensivo alla pratica delle extraordinary rendition, il sequestro illegale e la consegna a Paesi terzi di cittadini stranieri sospetti di terrorismo (che il nostro Paese ha imparato a conoscere con il caso Abu Omar). Il Parlamento Europeo, di qui alla fine di novembre, concluderà la sua indagine sulle consegne straordinarie e i suoi esiti si annunciano severi non solo per la Casa Bianca ma per tutti quei governi dell´Unione (compreso quello italiano) che di quelle prassi si sono resi consapevoli complici. Evidentemente, anche questo un prezzo che l´America non poteva continuare a sostenere.
La futura stagione dei processi che Bush dice ora di voler aprire secondo le regole che il Congresso dovrà scrivere e in osservanza dei princìpi che in due occasioni la Corte Suprema è tornata a ribadire, dirà se i risultati della "Guerra Nera" al Terrore resisteranno al vaglio di Corti che giudicano alla luce del sole e non nel buio di sale di interrogatorio, dove i manuali del Pentagono hanno autorizzato nel tempo l´uso di cani, l´affogamento, le molestie sessuali, l´oltraggio religioso. Anche qui, è un numero a dare un´idea. Ad oggi, Guantanamo ha consegnato alle aule di giustizia americane un solo sospetto. Non era stato arrestato nei campi di battaglia dell´Afghanistan o dell´Iraq, ma all´aeroporto di Jacksonville. Pregava Allah, ma era un cittadino americano con la divisa da ufficiale. Si chiamava Yee, capitano James Yee. Il Pentagono lo aveva scelto nel 2003 come cappellano militare di Guantanamo e ne aveva fatto un´icona della propaganda della tolleranza religiosa. Un anno dopo lo aveva infilato in una tuta arancione accusandolo di spionaggio e collaborazionismo con i prigionieri. All´inizio di quest´anno, Yee è stato prosciolto da ogni accusa. L´esercito ha dovuto presentare le sue scuse formali. Lui, da mesi, gira l´America testimone di se stesso, chiedendo che Camp Delta chiuda per sempre. Da ieri, lo dice anche il suo Presidente.

Ancora più disonesto il fondo di Roberto Zanini sulla prima apgina del MANIFESTO , che scrive addirittura:  "E' utile rapire, torturare, imprigionare in luoghi segreti, coartare testimoni, nascondere prove? L'abbiamo fatto e lo faremo ancora, questo ha detto ieri sera il presidente degli Stati uniti George Bush".
Ecco il testo completo:


E' una guerra come nessun'altra, la guerra al terrorismo. E come nessun'altra deve essere la maniera di combatterla. E' utile rapire, torturare, imprigionare in luoghi segreti, coartare testimoni, nascondere prove? L'abbiamo fatto e lo faremo ancora, questo ha detto ieri sera il presidente degli Stati uniti George Bush in un intervento a reti unificate. Seconda fase, rilancio, ripartenza: come lo si chiami, Bush dice a tutti che l'incubo è appena cominciato.
Per la prima volta la Casa Bianca riconosce che le carceri segrete della Cia esistevano - se ne parla da un anno, esiste un'inchiesta europea su voli Cia e prigioni in stati del Vecchio continente, ma mai un'ammissione prima di questa. Ci servivano per avere quelle informazioni dalle quali dipende la nostra sicurezza, ha detto Bush. Le abbiamo ottenute applicando «metodi forti ma legali», quali non ve lo dico. Arrestando tizio siamo arrivati a caio, da lui a sempronio e avanti così, salvando il nostro paese a ogni passo. Funziona, quindi non ci fermeremo.
La guerra che iniziò sulle rovine fumanti delle Torri di New York - tra pochi giorni faranno cinque anni - ha trasformato, e in peggio, l'intero pianeta. Da allora l'Afghanistan diventato è un luogo da incubo in cui la Nato combatte senza vedere la fine, l'Iraq è un cratere fumante con cento morti ammazzati a settimana, Saddam è un condannato che pretende di scegliere tra forca e fucilazione, la Convenzione di Ginevra un fastidioso ricordo. Si può saltare addosso a un paese e bombardarlo a morte senza rischiare molto, come Israele ha fatto al Libano e come gli Usa potrebbero fare all'Iran - «sono come Al Qaeda», ha detto Bush degli ayatollah: poteva essere più chiaro?
E la guerra al terrore non riguarda solo i paesi cosiddetti caldi. Prendere un aereo è un affare rischioso, celebrare un processo una cosa che riguarda la sicurezza nazionale, e poi milioni di telefonate intercettate, impronte digitali raccolte, e-mail violate... L'Europa discute se è possibile portare bagagli in aereo e se si può volare con bottiglie e bottigliette. Allarmi veri, presunti e fasulli esplodono ogni giorno.
Ci viviamo dentro tutti, nella guerra al terrorismo, ma il modo di esercitarla è sottratto a qualsiasi tipo di controllo non diciamo democratico, ma nemmeno umanitario. L'idea centrale della war on terror è che il presidente degli Stati uniti ha il dovere di combatterla con tutti i suoi poteri costituzionali - e sono molti - e i terroristi veri o presunti hanno pochi o nessun diritto.
L'affondo di Bush è stato preparato con precise anticipazioni ai media, richiedendo espressamente la copertura in diretta dei grandi network. Il motivo è di palmare evidenza e non ha nulla a che fare con la sicurezza degli Usa o del resto del pianeta. E' l'inizio della strategia di riconquista dell'elettorato americano, che in novembre voterà per le elezioni di medio termine. In ballo c'è il controllo del Congresso: se perdono, i repubblicani passeranno i prossimi due anni in tribunale a difendersi da inchieste di ogni tipo. I processi ai «terroristi» possono essere un buon palcoscenico elettorale ma le garanzie sono un ostacolo, i diritti un inciampo, il dovere della prova un fastidio.
Non è merce sacrificabile alle emergenze, dovrebbe anzi costituire il fondamento di un sistema democratico. Il problema è che a furia di esportarla, di democrazia non ne è rimasta molta. Le scorte non sono inesauribili.



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