Il passo più lungo della gamba
la missione dell'Onu non è ancora arrivata in Libano e già u.d.g. ne vorrebbe un'altra a Gaza
Testata:
Data: 28/08/2006
Pagina: 1
Autore: Umberto De Giovannageli - Maurizio Chierici
Titolo: Speranza in Libano, disperazione a Gaza - Quella Beirut vista nell'82

"Speranza in Libano, disperazione a Gaza" è il titolo di apertura dell'UNITA' del 28 agosto 2006.
A pagina 5 Umberto De Giovannangeli chiarisce e amplia il concetto , dando la parola al portavoce del governo di Hamas, il quale lamenta il degrado della striscia a un anno dal ritiro israeliano e giunge fino ad ammettere che "non è solo colpa di Israele".
Un vero esempio di equanimità, da parte dell'esponente di un gruppo che, governando Gaza in nome del jihad contro Israele e non della costruzione di una nazione palestinese, è oggi il primo responsabile del disastro.
Ma l'obiettivo dell'esponente di Hamas, come quello del giornale che ne ospita le parole, non è certo quello di tracciare attendibili bilanci delle responsabilità storiche della classe dirigente palestinese.
Com'è subito evidente è piuttosto quello di suggerire, prima che la missione in Libano abbia dato qualsiasi prova di sè,  una sua estensione a Gaza.

Non crede De Giovannangeli che sarebbe almeno necessario verificare l'esito dell'invio di truppe in Libano ? Serviranno al disarmo di Hamas? O manterranno soltanto un fragile cessate il fuoco fino al riarmo di  Hezbollah e al nuovo conflitto?
E anche nel caso avessero successo, potrebbe avvenire altrettanto con un'azione a Gaza non preceduta da colpi alle organizzazioni teroristiche altrettanto decisi di quelli che Israele ha inferto a Hezbollah?

Ecco il testo dell'articolo:


Ogni giono senti che uno è stato ucciso durante la notte e che la ritorsione avrà luogo la mattina. Le famiglie a Gaza si preparano ad un di clan. Gaza è diventata un contenitore di immondizia: il governo e l’opposizione sono impotenti». Un ritratto impietoso. Tanto più si-
gnificativo perché a delinearlo, in un articolo pubblicato ieri su un quotidiano palestinese, è Ghazi Hammad, portavoce del governo di Ismail Haniyeh (Hamas).
Nell’articolo Hammad afferma di non voler tornare per l’ennesima volta a denunciare l’occupazione israeliana, mentre preferisce rivolgere la propria attenzione ai difetto della società palestinese. «Siamo sempre refrattari a discutere le nostre manchevolezze», lamenta il portavoce del governo palestinese «targato» Hamas. «Il nostro pensiero si è fatto ristretto, solo in rare occasioni riusciamo a realizzare i nostri progetti». Hammad trova deprimente il forte contrasto fra i sogni che avevano elettrizzato i palestinesi di Gaza quando un anno fa le truppe israeliane lasciarono la Striscia, e la caotica realtà odierna. Il suo articolo è stato definito «coraggioso» dall’agenzia di stampa palestinese Maan, che ne ha riportati ampi estratti. Anche Radio Gerusalemme ha sottolineato che secondo Hammad i lanci di razzi palestinesi verso Israele si sono rivelati controproducenti.
Una forza multinazionale a garanzia della sicurezza dei palestinesi della Striscia e dei civili israeliani delle città frontaliere bersaglio dei razzi Qassam palestinesi. È l’appello che proviene da Gaza. Una Striscia segnata dalla sofferenza e da una crisi umanitaria sempre più drammatica. Se non si interverrà celermente per migliorare la situazione, Gaza dovrà affrontare una crisi umanitaria peggiore di quella verificatasi in Kosovo, avverte David Shearer, direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti umanitari. Secondo le stime della Banca Mondiale, il 75% dei palestinesi si troverà nel giro di due anni sotto la soglia di povertà. Il tasso attuale è del 56%, nel 2000 era del 22%. In disastro umanitario che incombe su Gaza ha come prime vittime innocenti i bambini. Rapporto Unicef sui Territori: circa 2800 bambini muoiono ogni anno a causa di malattie prevedibili o curabili. Nell’ultimo semestre a Gaza il numero è aumentato del 15% a causa della crescente mortalità neonatale. Il 30% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica. «Nel corso dell’ultimo mese 35 bambini sono stati uccisi a Gaza, un quarto dei quali aveva meno di 10 anni. Il numero dei bambini palestinesi uccisi nella Striscia e in Cisgiordania sdale così a 65 dall’inizio dell’anno», rileva Dan Rohrmann, rappresentante dell’Unicef nei Territori. «Cos’ altro deve accadere perchè la Comunità internazionale decida di agire a Gaza come sta facendo in Sud Libano?», dice a l’Unità Hanan Ashrawi, ex ministra palestinese, paladina dei diritti umani e civili nei Territori. Una risposta, sia pure indiretta, viene dal ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema.
«È evidente che il dispiegamento delle forze internazionali a Gaza deve passare attraverso un accordo con gli israeliani e i palestinesi», afferma il titolare della Farnesina in un’intervista al Tg5, tornando a commentare la sua proposta di dispiegare una forza Onu anche a Gaza. L’auspicio di D’Alema è che «si torni al tavolo del negoziato» perchè «non ci può essere pace con scelte unilaterali». «Se si devono avere due Stati - conclude il vice premier italiano - non può essere solo una parte a decidere i confini».

Il quotidiano pubblica anche un articolo di Maurizio Chierici, che si atteggia a grande giornalista, addirittura in diritto di disprezzare Oriana Fallaci, la quale, ci racconta,  per non aver condiviso con i "combattenti palestinesi"  le bombe israeliane su  Beirut nel 1982 non riuscì a intervistare Arafat ( o piuttosto non vi riuscì perché in precedenti occasioni aveva dimostrato di non essere servile e soggiogata dal mito guerrigliero del raìs come moltissimi giornalisti occidentali?).
Tutto l'articolo è un lungo flash back di odio antisraeliano. Nel 2006 i soldati italiani vanno in Libano, secondo Chierici, per salvare Hezbollah, come nell'82 ci andarono, fallendo, per salvare l'Olp. Il cattivo, in questa sceneggiatura, è sempre lo stesso: Israele.
Ma la memoria del grande giornalista è difettosa. Ricorda perfettamente il dato fondamentale (Israele è malvagio) che deve in ogni modo comunicare ai suoi lettori, ma si perde sui particolari.
Così fa di Bechir Gemayel il responsabile della strage di Sabra e Chatila, compiuta dai falangisti cristiani anche per vendicare la sua morte, attribuita a torto o a ragione ai palestinesi e ai loro alleati. Morte dovuta a un attentato che Chierici posticipa, dal 14 settembre (due giorni prima di Sabra e Chatila) al 24.

Ecco il testo:

 
Stanno per partire. I caschi blu italiani tornano in Libano ma i soldati sono «tecnicamente» diversi da quelli sbarcati a Beirut 24 anni e due settimane fa. È diversa la situazione da controllare perché l'intero vicino Oriente è ormai una polveriera immersa nell’incendio che, trascinata da Roma, l'Europa prova a spegnere. Eppure era forse più pericoloso l'intervento sul campo dei nostri militari nel 1982. Per la prima volta dalla fine del conflitto mondiale, quel 19 agosto, i bersaglieri sbarcavano armati in un Paese straniero. All'inizio pasticciando. Il pontone della nave non si apre
La banda dei marines smette di suonare l'inno di Mameli mentre i francesi sorridono di compassione: «Ah, les italiens...». Invece la gente ha subito capito: non eravamo signori della guerra come i marines - lampadari neri, e i francesi biondo-legione straniera, tutti sopra il metro e ottanta. Diversi, perché non giganti impassibili, nessun rambo muscoli e tuta leopard. «Sembrano libanesi...», quasi un sospiro di sollievo.
La diffidenza verso lo straniero in divisa viene sciolta dalle penne dei bersaglieri. Che soldati sono? Curiosità di Jarrier, generale della Legione. Diffidenza che svanisce sotto le tende degli ospedali da campo montati in poche ore: la gente di Beirut Est non aspettava altro, stremata dall’assedio. Due mesi senza dottori e medicine, nessun dentista a portata di mano: oltre la paura, quel dolore. Diversi, perché marines e legione venivano da altre guerre che avevano pacificato o animato con silenzioso cinismo, mentre due generazioni di italiani erano cresciute senza sapere cos’è una vera battaglia se non gli spari del cinema («Ivo Jima», «Orizzonti di gloria», eccetera), o il gioco dei ragazzi di leva: esercitazioni attorno ai confini Austria-Jugoslavia.
Schema ripetuto in manovre sempre uguali da un anno all'altro: come respingere l'invasione dell'altra Europa. Per contenerne la violenza lo stato maggiore aveva programmato ogni difesa necessaria a proteggere gli uomini dall'attacco nucleare del perfido aggressore. In fila a ritirare il kit salvavite e una volta arrivati al tavolo del maresciallo capo, dopo aver firmato il registro della consegna, i giovani difensori della patria ricevevano un biglietto con su stampato: «Cibo antiatomico. Da conservare sotto vuoto». E finiva lì. Guerre da manuale come il gioco degli scacchi: rossi contro azzurri. Gli azzurri vincevano sempre per decisione dei generali Nato.
Da queste caserme sono arrivati a Beirut i meno sprovveduti, addestrati decentemente, ma era sempre un debutto su un palcoscenico rumoroso, quel 19 settembre, mentre i palestinesi prossimi all'esilio svuotavano gli arsenali segreti sparando in aria razzi, traccianti, scariche di mitraglia. Per giorni e giorni frastuono infernale e notti illuminate da vampate che non erano fuochi d'artificio. Le pallottole vaganti finivano per colpire sempre qualcuno. I nostri erano 600 giovani e forti, annichiliti dai rimbombi. Sembravano schiacciati dal rumore. Tesi, taciturni, eppure avanzavano verso la linea verde che era il filo armato tra la Beirut Est di Sharon e cristiano maroniti, e la Beirut Ovest, islamica e di Arafat. Non ricordo il nome della strada, solo del check point che gli italiani stavano prendendo in consegna: galerie Sheman, negozio di mobili dalle vetrine sfondate. I nostri militari si acquattavano attorno alle rovine. Piccole autoblindo dipinte di bianco alle spalle.
Arrivati il 19 agosto guidati dal tenente colonnello Tosetti, ripartiti l'11 settembre: 23 giorni che cambiano un'altra volta la storia del Medio Oriente. Compito degli italiani era garantire la partenza di 6 mila miliziani palestinesi e del vertice dell'Olp, compreso Arafat. Una nave greca faceva la spola tra Beirut, Atene e Tunisi, nuovo rifugio dell'esilio. Non è stato facile. Alla vigilia dell'esodo, nella spianata sulla collina davanti al palazzo presidenziale di Baabda, il ministro Sharon provoca i giornalisti: «Siete sicuri che Arafat ce la farà a lasciare Beirut?». Nelle ultime ore i suoi cannoni puntati sul campo di Chatila, duecento metri sotto, cercano e distruggono ogni possibile rifugio del presidente Olp. Le ultine parole di Arafat in terra libanese sono raccolte da un gruppo di giornalisti italiani. Manca Oriana Fallaci. Dall'albergo Alexander, terrazza illuminata che guarda le rovine della Beirut mussulmana, la Fallaci telefona a quelli sotto, senza luce, niente acqua, piatti quasi vuoti. «Voglio esserci anch'io all'appuntamento con quel frocio di Arafat. Metti il mio nome nella lista e fammi sapere».
Non c'è niente da far sapere. Aveva appena scritto un'intervista d'amore a Sharon e i palestinesi consentono l'incontro solo ai testimoni che hanno vissuto due messi sotto le stesse bombe mentre la Fallaci guardava il fumo dall'alto.
L'11 settembre gli italiani tornano a casa. Il 14 Sharon occupa la Beirut assediata disobbedendo al protocollo del consiglio di sicurezza. Vuole qualche giorno di tempo per ripulire i campi profughi di «2000 miliziani palestinesi nascosti fra la gente». Ecco il massacro di Sabra e Chatila (1770 vittime ufficiali, meno di 3 mila secondo altre versione: per metà donne, vecchi, bambini). Massacro organizzato dal nuovo presidente libanese Bechir Gemayel questa volta protetto dalle truppe di Sharon. Gemayel è un esperto del ramo: autore in prima persona della strage di Tel El Zaatar, altro campo palestinese «conquistato» qualche anno prima sotto protezione siriana. Il 24 settembre la sua breve presidenza viene bruciata da un attentato che lo uccide. Amin Gemayel, il fratello, ne prende democraticamente il posto e una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza invita a tornare subito a Beirut italiani, francesi e americani, presenza simbolica di cento inglesi.
Questa volta i caschi sono blu. 2300 uomini arrivano il 24 settembre agli ordini del colonnello Angioni. Italiani inglesi e francesi tornano nelle postazioni abbandonate 13 giorni prima. La memoria francese non rinuncia alle glorie del passato: insedia il comando nella Foresta dei Pini, palazzo dove abitava il vecchio governatore di Parigi negli anni del protettorato. La Legione copre una zona che arriva alla Hamra, via Montenapoleone decaduta della capitale sunnita. Gli Usa preferiscono lasciare i marines fuori città, lontani dalla gente: controllano l'aeroporto e la strada lungo il mare fino a Damour, città di vacanze, belle case ormai in rovina dei notabili maroniti. Gli italiani dell'operazione Libano 2 vigilano più o meno gli stessi quartieri pattugliati dai bersaglieri della Libano 1. Settore complicato: 34 chilometri abitati al 99 per cento di mussulmani sciti, i più poveri, i più inquieti. Hanno attraversato la guerra col partito Amal che comincia a cambiare nome: bandiere gialle Hezbollah.
La mappa del colonnello Angioni risale le montagne druse, sfiora i carri schierati della Siria e confina con le postazioni israeliane. Regole di ingaggio che prevedono la protezione della popolazione e l'uso delle armi solo per difesa o per prevenire massacri civili. Non è scritto nei rapporti, ma i cronisti che raccontano il Libano lo sanno: qualche volta il fuoco italiano si incrocia nella notte col fuoco di commandos israeliani. Cercavano «capi guerriglia nascosti fra i civili». San Marco e bersaglieri fanno rispettare l'impegno. Un vero ospedale e ambulatori volanti proteggono i nostri uomini dagli attacchi di chi non sopportava la presenza straniera. La gente ne ha bisogno e si fida. Dopo la guerra un altro dramma: l'inverno '82-'83 gela le colline del Chouf, metri di neve isolano i villaggi drusi paralizzati dalla ragnatela degli schieramenti armati. Non possono scendere verso il mare: israeliani e maroniti lo impediscono. Non possono rifugiarsi nella valle della Bekaa: i siriani non lasciano passare. Prigionieri della montagna, e ciò che resta delle scorte salvate ai giorni di fuoco, presto finisce. Insomma, muoiono di freddo e di fame.
Gli italiani aprono le strade, portano cibo e medicinali come cani san Bernardo. Un solo attentato: uccide un maresciallo e ferisce 75 militari. I morti francesi sono 87, quelli americani 275. Parigi e Washington si impauriscono: riducono il territorio affidato alla protezione. Marines asserragliati attorno all'aeroporto; francesi che abbandonano Chatila. Le milizie fioriscono armate. Si scatenano terrorismo e colpi di mano, ambiguità delle guerriglie che francesi e americani hanno conosciuto bene dall'Algeria al Vietnam. Il 6 marzo '84 gli italiani tornano a casa.
E adesso tornano in Libano. I soldati di oggi non ricordano gli straordinari soldati di ventiquattro anni fa costretti ad imparare in fretta a proteggere la gente dalla guerra dentro ad una guerra senza regole e frontiere. Da allora le nostre truppe di pace hanno conosciuto altri fronti del dolore: Kossovo, Afghanistan e la guardia al pozzo di petrolio di Nassirya nella speranza che gli iracheni si ricordino del vecchio contratto Eni. Sanno come muoversi. Diversa anche la realtà attorno. La cornice che stringeva il Libano '82 era regolata dai dogmi delle due superpotenze divise tra la diplomazia delle carte e i protagonisti sul campo, disconosciuti dall'ufficialità ma nutriti nell'ombra. Washington di Reagan quasi stellare; Mosca impallidiva ma era sempre in grado di proteggere il regime siriano. Oggi le ipotesi restano complicate. La superpotenza non è più super: sta facendo i conti con l' Iraq e si aggrappa all'Onu fino a ieri disprezzato. Hezbollah da disarmare o integrare nell'esercito libanese? Se Beirut arruola nelle forze nazionali i combattenti di Dio, Israele continuerà a considerare il Libano paese amico? L'Onu e Israele vorrebbero schierare i caschi blu lungo la frontiera siriana per tagliare i sentieri delle armi che dall'Iran arrivano agli Hezbollah, ma Damasco protesta e il Libano è costretto a scegliere. In fine Israele: la sua macchina da guerra che nel'82 in quattro giorni si era affacciata sulle alture di Beirut, non è più un orologio.
Colpa dei servizi segreti che non scoprono i segreti del nemico. Per un mese bloccati un passo dentro il Libano malgrado i bombardamenti che sappiamo. Mille morti, sempre più civili. Marcia in dietro, e a casa col dolore di tanti ragazzi che non ci sono più. La crisi politica del paese piattaforma Usa in fondo al Mediterraneo potrebbe aprire la pace tanto attesa, o rimandarne a chissà quando le speranze che l'Europa risvegliata sta provando a rianimare. Ecco, i nostri ragazzi partono con queste domande.
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