La pace nasce dalle sconfitte israeliane
l'assurda tesi di Bernardo Valli
Testata: La Repubblica
Data: 28/08/2006
Pagina: 1
Autore: Bernardo Valli
Titolo: Gerusalemme alla svolta

La fortunata sconfitta di Israele la riconcilia, sostiene Bernardo Valli nel suo editoriale pubblicato dalla REPUBBLICA del 28 agosto 2006, con la comunità internazionale, portandola ad accettare le truppe di interposizione in Libano.
Sarebbe necessario un passo ulteriore: che Israele cioè accetti il dialogo e la riconciliazione con i suoi nemici palestinesi .

Valli non si è accorto che i tentativi di Israele di stringere un accordo con i palestinesi sono sempre naufragati per la fedeltà delle classi dirigenti di questo popolo al sogno della distruzione dell' "entità sionista" e per la loto incapacità di rinunciare al terrorismo e alla violenza.

La sua analisi, del resto, si basa su di una errata ricostruzione storica, secondo la quale ogni passo verso la pace in Medio Oriente sarebbe stato compiuto dopo una più o meno grave sconfitta israeliana.

Analisi del tutto infondata.

Circa la guerra del 73  : in quell'occasione Sadat riuscì a proclamare una vittoria che non ebbe, convicendo le masse egiziane, ma si dovette rendere definitivamente conto dell'impossibilità di cancellare Israele dalla faccia della terra.

Circa il "processo di pace" (che , bisognerà pur ammetterlo una buona volta, non ha portato a nessuna pace e a nessuna sicurezza per Israele): esso fece seguito a un gravissima sconfitta politica dell'Olp, che nel 91 aveva appoggiato Saddam Hussein e perso il sostegno economico degli Stati del Golfo e la credibilità internazionale e poco dopo, con la dissoluzione dell'Unione sovietica, l'alleanza con una superpotenza.
Fu per questo che l'Olp fu temporaneamente costretta a rinunciare al terrorismo e a prendere la via del negoziato.

In realtà, una vera sconfitta di Israele sul piano militare porterebbe alla pace in un modo molto particolare. Segnerebbe la fine dello Stato ebraico, e con essa la fine del conflitto per la sua distruzione o per la sua esistenza.
Per  chiunque non sia disposto ad accettare una simile "soluzione", l'unica via per la pace è quella della sconfitta di chi ha scatenato e vuole scatenare guerre di annientamento. Dei nemici di Israele, cioè. Degli aggressori, non di chi si difende. 


Ecco il testo di Valli: 

La buona notizia è che l´ultima guerra ha creato l´opportunità per arrivare in Medio Oriente a una soluzione diplomatica. E quindi evitare il secondo round Israele-Hezbollah, che alcuni si aspettano, auspicandolo o temendolo. Un secondo scontro che potrebbe coinvolgere la Siria.
Senza contare le previsioni più azzardate, o più lungimiranti, che vedono in prospettiva il coinvolgimento dell´Iran, nuovo e incomodo protagonista mediorientale. A dissipare o diradare questi cupi scenari, mentre si attende l´arrivo dei caschi blu nel Libano meridionale, c´è quella sentenza ottimistica secondo la quale l´ultima guerra ha già aperto uno spazio politico in cui è possibile avviare un dialogo, invece di far parlare di nuovo le armi. Vale la pena analizzarla.
Tra coloro che annunciano la buona notizia di una possibile soluzione diplomatica c´è Shlomo Ben-Ami, ex ministro degli esteri laburista, e negoziatore israeliano nelle trattative (del 2000) a Camp David e poi a Taba. Dunque un esperto nella materia di tutto rispetto. Il quale ricorda come nel passato ci siano state nette vittorie israeliane che non hanno condotto a risultati diplomatici positivi. Al contrario l´ultimo "match nullo" sul terreno, o la rivelazione della fragilità israeliana, ha già dato un segnale promettente per l´avvio di trattative. I precedenti esistono e sono evidenti. La guerra del Kippur (1973), quando Israele ebbe serie difficoltà iniziali, portò alla pace con l´Egitto. Ed è dopo la prima Intifada, nella seconda metà degli anni Ottanta, seguita (nel 1991) dalla pioggia di missili Scud su Israele, durante la guerra del Golfo, che fu possibile la Conferenza di Madrid, preludio agli accordi di Oslo (1993). I quali decisero il reciproco riconoscimento tra Israele governato da Rabin (e da Peres), e l´Olp di Arafat.
Il conflitto in Libano, più recente tappa della maratona mediorientale, ritmata da guerre e insurrezioni, ha dimostrato i limiti della forza militare quando essa si scontra a un movimento di guerriglia (terrorista, precisa Ben-Ami), come Hezbollah: un´opposizione nazionalista con un vasto appoggio popolare e profonde motivazioni religiose, di cui i paesi nemici, come la Siria e l´Iran, si servono per logorare la dissuasione di Tsahal. In questa circostanza, essendo stati violati i suoi confini e potendo avanzare il diritto di difendersi, Israele è ricorso alla «comunità internazionale».
Era la prima volta da decenni. È stata una svolta nell´elaborata strategia della sicurezza israeliana. Qualcosa di simile a una riconciliazione, sia pure parziale, che ha messo da parte, se non proprio archiviato, la lunga e tenace sfiducia, puntualmente dichiarata, e manifestata coi fatti. La comunità internazionale, rappresentata dall´Onu, era considerata ostile, e quindi dileggiata, e comunque giudicata inefficiente. Inutile.
Il governo di Gerusalemme è arrivato a questa riconciliazione quando ha compreso i limiti della propria forza: «L´incapacità - dice Ben-Ami - di battere il nemico sul piano militare». Soltanto allora ha cominciato a considerare la comunità internazionale come un partenaire, e ha accettato il dispiegamento di una forza internazionale ai suoi confini. Ma Israele deve capire le conseguenze di questa sua accettazione.
La riabilitata comunità internazionale ha deciso di neutralizzare gli hezbollah perché hanno violato una frontiera riconosciuta: e il caso del Libano costituisce ormai un precedente che dovrebbe essere applicato anche alla frontiera siriana e a quella palestinese. È pronto Israele a vedere dei caschi blu lungo quei confini? Un accordo con i palestinesi e con i siriani, sulla base dei principi appena applicati, può rivelarsi urgente.
Il declino dell´alleato americano dovrebbe affrettare i tempi. Non è soltanto Ben-Ami, in Israele, a vedere il rapido deterioramento dell´influenza degli Stati Uniti nella regione. Entrambi, Israele e Stati Uniti, hanno constatato sul terreno che la dissuasione militare serve fino a che non ce se ne serve. Una pax esclusivamente americana in Medio Oriente non è più possibile.
Non soltanto perché l´America non è più una fonte di ispirazione.
Ma perché, dice Ben-Ami, non fa più paura. Inoltre essa ha perduto la capacità di essere un mediatore di pace, e ha lasciato gli israeliani senza canali di comunicazione con i suoi nemici. Ha smarrito quella virtù perché ha agito in Iraq e ha iniziato la guerra mondiale contro il terrorismo girando le spalle alla comunità internazionale. Della quale ha sottovalutato l´importanza, come Stalin sottovalutava quella del Vaticano perché non aveva neanche una divisione. Commette uno sbaglio chi non tiene conto dell´importanza morale e strategica di quel termine fluido, che Israele ha tanto a lungo disprezzato. E di cui ha accettato adesso di avere una concreta presenza sul confine col Libano. Una presenza che è anche un´opportunità di dialogo, perché questo significa «comunità internazionale».
Israele ha applicato nel suo ambito l´unilateralismo che gli Stati Uniti hanno adottato a lungo su scala mondiale.
Si è ispirato a quel principio quando nel 2000 ha evacuato il Sud del Libano e quando Ariel Sharon ha ritirato le colonie da Gaza lo scorso anno, I risultati sono stati disastrosi, perché bisogna essere onnipotenti quando si agisce da soli, senza interpellare, senza trattare con la controparte, e nessuno è a lungo onnipotente sulla Terra. L´esempio del Muro è indicativo.
L´ha voluto Sharon per dividere Israele dalla Palestina, ed è ancora in costruzione, senza una concertazione con i palestinesi.
E´ appunto un´iniziativa unilaterale. Il tracciato non segue la Linea Verde, sconfina in territorio palestinese e quindi i palestinesi lo contestano. Doveva essere una barriera insuperabile. Ma adesso ci sono i missili (Katiuscia o Kassam) che lo scavalcano facilmente. A cosa serve? Si chiede Danny Rubinstein, esperto in problemi palestinesi. E annuncia « la morte dell´unilateralismo». Adesso bisogna trattare. Ed è appunto quello che Israele dovrebbe fare, su un piano più ampio, con i paesi nemici, adesso che si è riconciliato con la comunità internazionale.

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