Israele, la minaccia iraniana , la democratizzazione del Medio Oriente, la sicurezza dell'Occidente...
intervista Ambasciatore Ehud Gol
Testata:
Data: 16/06/2006
Pagina: 52
Autore: Pierre Chiartano
Titolo: Intervista Ambasciatore dello Stato d’Israele, Ehud Gol

Di seguito, un'intervista di Pierre Chiartano all'Ambasciatore d'Israele in Italia, Ehud Gol, pubblicatosul numero 35 della rivista LIBERAL:

Il deserto sembra aver creato uno spirito che sa, che ogni conquista dell’uomo è prodotto di fatica e impegno, volontà e scelta continua. Le religioni abramiche hanno questo in comune, ci rendono coscienti della sofferenza in terra, per conquistare diritto, libertà e pace, in attesa del paradiso ultraterreno, degna ricompensa per tante pene. C’è un popolo, nella terra d’Israele che questa legge la conosce bene, che più di altri ha dovuto difendersi, conquistare ogni centimetro di libertà, rischiare l’annientamento totale e, nonostante tutto, ha mantenuto equilibrio, gioia di vivere e fiducia nel futuro fino a diventare una delle più sviluppate democrazie del mondo. Ha vissuto l’isolamento nei confronti di un’Europa che non comprende ancora la radice del proprio «male» che ha condotto all’Olocausto, non solo del popolo ebraico, sacrificio umano oggi dileggiato dallo strano hayatollah senza turbante.

 

Le note allegre della musica klezmer stemperano l’urlo delle bombe dei kamikaze, il dolce del medjoul della valle del Giordano non cancella però, l’amaro del sangue di molte vite che, ogni anno, pagano il prezzo dell’incomprensione. Capire è dunque, la chiave del colloquio con Ehud Gol, ambasciatore dello Stato d’Israele in Italia, ormai a fine mandato. Sicurezza, minaccia iraniana, scommessa irachena, lealtà politica e spirito di una democrazia cui sono legati indissolubilmente i destini dell’Europa e dell’intero Occidente, sono gli argomenti trattati da un esperto di affari internazionali che ha al suo attivo un record di primo piano nel campo della diplomazia. Già ambasciatore a Madrid con innumerevoli incarichi di responsabilità e portavoce del primo ministro Ytzhak Shamir, usa un linguaggio semplice e diretto, come la natura di un paese che, nello spazio tra pensiero ed azione, vede spesso messa in gioco la propria sopravvivenza.

 

 

L’Europa ha difficoltà a comprendere, come Israele sia un pilastro fondamentale della propria sicurezza. Patiamo ancora la «sindrome Suez» del ridimensionamento del nostro ruolo in Medioriente, o non siamo riusciti a capire come in quell’area si giochi il nuovo balance of power globale?

 

 

Durante la guerra fredda Israele è stato il bastione in difesa dell’Occidente in Medio Oriente contro il comunismo. Nel periodo dell’ascesa del nasserismo e del panarabismo c’era l’accordo fra Egitto e Urss per scardinare il sistema delle libere democrazie. Oggi quel pericolo non è più presente, come trenta o quaranta anni fa; non c’è più la guerra fredda, ma un altro genere di pericolo, forse più insidioso: il fanatismo islamico e il terrorismo internazionale. In questo momento Israele è l’unico paese totalmente democratico che condivide, al cento per cento, i valori e le tradizioni occidentali in quest’area. È circondato da paesi che sono sulla faticosa via della democrazia e altri totalmente dispotici. L’alleanza fra Israele, gli Stati Uniti e il mondo democratico occidentale è la garanzia per poter preservare i valori di libertà anche in questa parte del Mediterraneo.

 

 

È possibile ipotizzare un ingresso d’Israele nella comunità europea?

 

 

No, e non dipende dalla nostra volontà. Faccio fatica a immaginare, oggi, con una Ue a 25, già così complessa da gestire, l’accettazione dello stato ebraico senza la presenza di altri paesi arabi. Forse, in un lontano futuro, se dovesse avere successo la politica americana di spreading democracy in Medio Oriente. Non è, al momento, un progetto realistico sopratutto prima dell’entrata della Turchia nell’Unione europea.

 

 

Questa valutazione vale anche per l’ingresso in un dispositivo di sicurezza come una Nato allargata?

 

 

Questa è un’altra storia. La collaborazione con l’alleanza atlantica e tradizionale fin da quando era il gruppo dei diciannove. Nel futuro sarà più facile per Israele diventare membro della Nato che della Ue. Potrebbe accadere prima un’integrazione sul piano della sicurezza che su quello politico. Aspetto politico, comunque, già in essere dal 1975, tramite un accordo firmato con l’Europa, poi rinnovato nel 1995 e integrato al processo di Barcellona.

 

 

L’Italia è il backyard mediterraneo del Medioriente, dal vostro punto di vista quale ruolo potremmo giocare nella partita del dialogo con l’islam moderato per rafforzarlo?

 

 

Prima di tutto penso che per l’Italia sia importante proseguire la politica adottata dal governo Berlusconi. Una politica calibrata e bilanciata che serve, innanzitutto, agli interessi italiani. Continuare a giocare un ruolo chiave, grazie alle strette relazioni col mondo arabo, sia quello moderato che con paesi meno democratici, è fondamentale. La politica seguita da Silvio Berlusconi, dal commissario europeo Franco Frattini e poi dal ministro degli Esteri Gianfranco Fini di strette relazioni con Egitto e Giordania e meno riformatori come Arabia Saudita e altri paesi del golfo Persico, significa ampliare lo scopo e l’influenza italiana nel Medio Oriente. Possiamo vedere concretamente i risultati con la nomina del generale Pistolesi al comando della forza multinazionale al valico di Rafah e, dal 2004, l’Mfo del Sinai messo sotto la responsabilità del generale Roberto Martinelli. Un successo che, da trent’anni, garantisce una frontiera tranquilla fra Israele ed Egitto. Così pure per il controllo al valico di Rafah. Oggi l’Italia può chiamare ogni leader del mondo arabo e può fare altrettanto con Israele. Un ruolo chiave per il Medio Oriente e per la sicurezza della stessa Italia.

 

 

L’asse Gerusalemme, Roma, Londra e Washington, con la possibile aggiunta della Germania della Merkel, sarà ancora l’architrave della nuova sicurezza mediorientale?

 

 

È forse un’utopia. Non penso che Israele possa essere inserita in un architettura politica di questo genere, fino a quando non ci sarà la pace con i palestinesi. Ci saranno accordi e una stretta attività diplomatica a livello bilaterale, senz’altro, ma, al momento, non vedo altre prospettive. Il rapporto con Washington è molto forte e lo è diventato anche con l’Italia del governo passato, vedremo con il nuovo. Con la Germania di Schroeder le relazioni si erano raffreddate, verso il premier Angela Merkel c’è una grande apertura, così come con Tony Blair, ma sarebbe presuntuoso pensare che, un paese piccolo come Israele, possa far parte di un asse politico così importante.

 

 

 

Durante la guerra fredda Israele, più ancora della Turchia, ha svolto il ruolo di tassello strategico nella difesa dell’Occidente, come ha dichiarato in apertura. Gli Usa, oggi, promuovono la loro politica estera come mosaico di valori, di cui la democrazia è solo una sintesi. Soft power, cultura ed economia non sempre sono sufficienti. È stata la scommessa di Washington in Iraq: forza prima e democracy bulding, poi. Come vede il ruolo del suo Paese, di fronte alla nuova «scommessa» iraniana?

 

 

Non è questione solo dell’Iran, ma di tutto il Medio Oriente dove manca la democrazia. Il premier Olmert ha recentemente affermato che, pensare a Israele come «prima linea» nell’eventuale confronto militare con Teheran, sarebbe un errore, non è un problema esclusivamente regionale o militare. È politico, perchè solo Israele rappresenta una completa democrazia. Dobbiamo essere consapevoli che più aumenta il processo democratico e meno terrorismo verrà prodotto da quest’area. Le radici del terrorismo non affondano nella povertà, perchè, allora, dovremmo incontrare maggiori difficoltà in Africa che nel MO, ricco di risorse. Il problema fondamentale  è la mancanza di democrazia, dobbiamo esserne consapevoli. Abbiamo cominciato con le elezioni in Afghanistan, poi con gli iracheni che, per la prima volta, hanno espresso un voto liberamente. Per l’Iran servirà tempo; lì la democrazia non è un istant coffee, dobbiamo stare attenti a non farci sfuggire di mano la situazione. Sarà un cammino difficile. Per esempio, in Libano, il processo per l’assassinio di Rafik Hariri ha permesso a quel paese di liberarsi, in parte, del giogo siriano. Molti regimi sono entrati in crisi, anche in Arabia Saudita si vedono i primi passi con l’entrata di alcune donne nel Parlamento. Così anche in altri paesi del Golfo e in Libia, non perchè Quaddafi sia democratico, ma perché è abbastanza intelligente per capire che gli conviene assecondare i cambiamenti...

 

 

C’è anche il problema dell’infiltrazione di Ansar al Islam nella zona di Bengasi. Il regime si sente minacciato...

 

 

Un problema che non c’è solo in Libia. L’Egitto ha la presenza dei Fratelli musulmani. Come possono questi regimi, a metà strada fra dittatura e democrazia, salvarsi? Non c’è dubbio che la risposta è: più democrazia. Questa è l’idea degli Stati Uniti, cominciare questo processo, difficile, lento verso la democrazia. Sarà l’unica garanzia contro il terrorismo. Per l’Iran il discorso è lo stesso, solo che richiederà tempi più lunghi.

 

 

In Europa ed in Italia abbiano difficoltà a comprendere come la sicurezza per Israele, che puoi attraversare in auto in meno di un paio d’ore, sia una condizione non sindacabile per qualsiasi politica di dialogo, che sia con l’Anp di Hamas, col Libano che ospita Hizbollah, con la Siria che finanzia entrambi o l’Iran del nuovo islamofascismo. Sarebbe utile cercare di renderlo più chiaro.

 

 

Poche persone in Europa comprendono l’assoluta necessità d’Israele a difendersi. Per voi europei, avendo come vicini norvegesi, sloveni, austriaci o greci, è difficile capire quanto sia dura la condizione di una moderna democrazia, con tutte le garanzie di libertà di espressione, movimento e rappresentanza, vivere gomito a gomito con chi vuole solo la tua distruzione. Solo dall’inizio della seconda Intifada abbiamo perso, nel 2002, 450 vite umane a causa degli attentati. La nostra politica, giocoforza, ha dovuto esprimersi in tre direzioni. Combattere il terrorismo ed eliminare ogni terrorista che volesse nuocere agli israeliani, come abbiamo fatto con Yassin ed altri; secondo, costruire la barriera di sicurezza e, terza componente, continuare con la politica dei negoziati. Dicevo, «barriera di sicurezza» e non «muro» come lo chiamate in Europa. È bastato completarne solo il venti per cento del totale, per ridurre drasticamente il numero di attentati. Se per ogni metro di questa barriera riusciamo a salvare la vita di un bambino israeliano, sarà un motivo sufficiente per andare avanti nella sua costruzione. Un corridoio di sicurezza che potrà essere smantellato facilmente, in qualsiasi momento, quando ci saranno le condizioni per una pace vera, non per una pace falsa. È brutto fare statistiche sui morti, ma di anno in anno, le perdite umane sono diminuite fino ad arrivare, nel 2005, a meno di trenta. La barriera funziona e non si tratta di politica della forza, di un risiko sui confini, ma soltanto e semplicemente della sopravvivenza dei nostri cittadini. Che sia solo una questione di sicurezza, lo dimostra lo sgombero avvenuto a Gaza. Abbiamo distrutto e smantellato un’intera comunità costituita da ottomila persone e venticinque insediamenti, in omaggio agli accordi di pace. Oggi, ieri, in ogni momento, dobbiamo contrastare continui tentativi di infiltrazioni terroristiche nel nostro territorio. Dobbiamo fare il massimo per difenderci e, allo stesso, tempo permettere una vita normale ai nostri cittadini.

 

 

Israele è un paese moderno con una vitale dinamica economica e culturale, come metabolizzate la tensione continua del terrorismo?

 

 

Le radici del terrore non nascono dal conflitto del ’67, ma molto prima. Ai primi di maggio abbiamo compiuto, come Stato, 58 anni vita, questa componente fa parte della nostra storia dall’inizio. Già nel ’64 con l’Olp di Arafat era stato necessario combattere il terrore. Negli anni Cinquanta erano i fedayn, oggi è Hamas, le brigate Al-Aqsa eccetera, cambiano solo i nomi. Ora c’è anche la minaccia esterna dell’Iran. Non è una vita facile.

 

 

 

Il pericolo dell’Iran atomico, con vettori missilistici come lo Shahab 5, - 4.000 km di raggio d’azione, ma sulla loro efficienza operativa non tutti sono d’accordo -, è quello di diventare un’aggressiva fonte offensiva per Israele, l’Occidente e altri paesi arabi, oppure  il vero pericolo, come paventato da alcuni, è quello che Teheran, con l’arma nucleare porterebbe anche paesi come Egitto, Arabia Saudita e Turchia a dotarsi di questo strumento militare, trasformando il MO da instabile teatro di conflitti, nelle più pericolosa polveriera nucleare del mondo?

 

 

È così, diventa una minaccia esistenziale, comunque la si valuti. Un arma nucleare nelle mani di questi pazzi può essere fatale, ma anche una bomba sporca è un pericolo. Ripeto, è una minaccia, non solo per Israele. Col nucleare il problema diventa capitale per tutti, con i vettori di nuova generazione Shahab, anche Europa e nord America saranno minacciati.

 

 

Ahmadinejad, l’hayatollah senza turbante, lo considerate una parentesi politica un «prete fanatico» che, prima o poi, lascerà strada al giovane Iran, moderato e colto, che oggi organizza feste private, fa uso di coca e subisce la sharia, ma che al momento opportuno spiccherà il volo, oppure è per voi un politico, rappresentante dell’islamofascismo, con cui dovremo prepararci ad un lungo ed estenuante confronto?

 

 

C’ è il popolo iraniano dove sono presenti tutte queste componenti, non rappresentate nell’Iran ufficiale. Ahmadinejad ha un potere politico molto forte e radicato. L’Occidente ha sbagliato politica, durante gli otto anni di leadership di Kathami, che ha giocato il ruolo del presidente moderato. In quel periodo si è sviluppato il terrorismo internazionale e la corsa agli armamenti, progetto nucleare compreso. Il processo di radicalizzazione iraniana non è dunque cominciato con Ahmadinejad che, oggi, purtroppo, rappresenta la maggioranza iraniana. In un paese di settanta milioni di abitanti ci sono senz’altro componenti diverse, colte, moderate e democratiche, dobbiamo dialogare con loro, ma avendo presente che vivono sotto un regime totalitario. Non penso che si possa aspettare il 2015, perchè emerga un leder moderato. L’Iran va bloccato in questo momento.

 

 

Potremmo ipotizzare una specie di «dottrina Kennan» per l’Iran?

 

 

Senz’altro, un mix di contenimento e aperture, a seconda dei comportamenti. Oggi si pensa che, con un blocco economico, la popolazione possa soffrire. Col prezzo del barile a settantacinque dollari, che presumibilmente raggiungerà i cento dollari, a fine anno, che necessità c’è di avere altre fonti d’energia come quella nucleare? Possiedono abbastanza potere finanziario da risolvere i problemi della povertà in tutto il paese, anche nel caso di sanzioni economiche.

 

 

Cosa ne pensa dell’attivismo iraniano in America latina e del nuovo asse anti-occidentale con Venezuela, Cuba e Bolivia?

 

 

L’Iran tramite hizbollah, già 17 marzo 1992, aveva sponsorizzato l’attentato alla nostra ambasciata di Buenos Aires e poi, nel ’94, sempre nella capitale, alla sede dell‘Associazione israelita in Argentina che provocò ben 96 vittime. Teheran non è dunque nuova alle trame terroristiche e cura da tempo i rapporti con leader come Chavez, Castro e, in ultimo, il presidente boliviano Morales Ayma. L’Iran dunque, può diventare una minaccia ben al di fuori dei confini mediorientali.

 

 

Natan Sharansky, già vice premier del governo israeliano, in un’intervento su Commentary, non usava mezzi termini per definire i paesi arabi in bilico fra dispotismo e tiepide riforme, dove nessuno avrebbe voluto veramente un Iraq libero, Iran compreso che con lo Sciri (Supreme council for islamic revolution in Iraq) finanzia la guerriglia sciita in Iraq. Ci stiamo veramente giocando la democrazia in mezzo alle sabbie del deserto?

 

 

Rispondo con un’altra domanda. Chi finanzia il terrorismo in Iraq? Vengono utilizzati i mezzi bellici più moderni, in azioni vaste e diffuse, sono tutte attività che costano molto in termini finanziari. Chi Paga? Anche nell’attentato ai vostri valorosi militari, a Nassirya, sono stati usati ordigni termici di ultimissima generazione. Chi li fornisce? Sono molti i paesi che non vogliono che l’Iraq si stabilizzi, per poter mantenere lo status quo. L’anarchia in Iraq serve questi interessi. Grazie agli americani abbiamo visto milioni di iracheni andare a votare, un esempio straordinario di democrazia. È interesse di Teheran, anche a prezzo di migliaia di morti sciiti e sunniti, fare in modo che la democrazia non vinca in Mesopotamia. Senza alcun rispetto per la religione, uccidono arabi, ogni venerdì, dentro le moschee. Nessuno vuole che i paesi arabi diventino democratici, ha ragione Sharansky. È più facile mantenere regimi arabi totalitari  e continuare ad affermare che il nemico è Israele e gli Usa. Però l’Iraq è grande ed esistono vaste zone del paese dove vige la legge e l’ordine. Penso che anche dopo la partenza dell’esercito Usa, sarà possibile per il governo di Baghdad controllare la situazione; sono ottimista, c’è un futuro per questo paese.

 

 

Che ruolo gioca Pechino in Medio Oriente, visto che ha molti interessi nell’area, dalla vendita di tecnologie civili e militari all’acquisto di idrocarburi per alimentare la sua famelica economia?

 

 

L’interesse principale della Cina, in questo momento, è di tipo economico. Hanno da poco firmato un accordo di fornitura di gas trentennale con Teheran. Allo stesso tempo Pechino agisce con astuzia, il mercato Usa è importante per la Cina...

 

 

Non pensa che il Medioriente avendo la Cina come nuovo partner commerciale cui vendere petrolio e da cui comprare tecnologie civili e militari, consideri meno importanti di prima i rapporti con l’Occidente?

 

 

La Cina è ancora un grande enigma, per conoscere esattamente quali saranno gli sviluppi futuri serve tempo. Il dialogo fra Usa e Cina deve continuare, ma se guardiamo ai dati storici, per esempio in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu, negli ultimi 50 anni Pechino non ha mai utilizzato il potere di veto. C’è la speranza che, qualora si dovessero decidere sanzioni all’Iran, la Cina non si metta in mezzo.

 

 

Gli Stati Uniti, dall’epoca di Wilson in poi, giudicano l’Europa diretta da una politica «realistica» e cinica quanto inefficace che, a sua volta, giudica la stance americana negli affari internazionali alternativamente come «ingenua» o «affaristica», e improntata ad un calvinismo che non flette sui valori, quindi percepito come «pericoloso» rispetto alla nostra tradizione alla transazione continua.

 

Israele contiene tradizioni provenienti da entrambe le culture delle due sponde atlantiche. Quali prevalgono o esiste un genius loci specifico?

 

 

Più  del cinquanta per cento dei cittadini d’Israele sono d’origine europea. Siamo quindi ancora più europei di molti paesi membri della Ue. Allo stesso tempo l’Europa, per noi, è legata ad un passato triste, di sofferenze, è il cimitero più grande del nostro popolo. Negli ultimi anni alcuni paesi europei non hanno attuato una politica equilibrata, anzi possiamo affermare che si sono caratterizzati per una politica anti-israeliana. È difficile accettarlo, visto anche i grandi interessi che l’Europa condivide col mondo arabo. L’Italia di Berlusconi ha dimostrato, invece, che è possibile mantenere interessi nel mondo arabo e allo stesso tempo sviluppare relazioni con Israele. Spero che questo modello diventi valido anche per altri paesi, ma non sono ottimista.

 

Al contempo, la nostra cultura condivide molti valori con la tradizione americana. Rappresentiamo, in grande loro, in piccolo Israele, il modello di democrazia compiuta nel mondo. Posso dire anche che condividiamo un certo idealismo politico. Quando sono stato direttore generale per l’Europa occidentale, durante gli incontri al vertice in cui si dovevano prendere posizioni ufficiali su questioni cruciali, affermavo sempre che il mio essere europeo lo manifestavo con posizioni pro-americane e continuo a pensarla così. L’America negli ultimi sessant’anni ha dimostrato di essere sempre un amico leale dello Stato ebraico, per l’Europa c’è ancora della strada da fare per essere certi della stessa lealtà. Forse è questa la differenza fra cinismo europeo e «ingenuità» americana, il concetto che fra gli stati, come fra gli uomini, possano essere instaurati rapporti di sincera amicizia e reciproca lealtà, al di sopra degli interessi materiali. Difendere i valori della democrazia poi, in un mondo dove la politica day by day ti spinge alla transazione continua, è l’unico fattore per dare un senso umano alla nostra vita, come persone e come Stati.

 

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