Massimo D'Alema versione UNITA'. Comprendiamo la necessita' a sinistra di sbianchettare il più possibile il passato di Massimo D'Alema per renderlo presentabile. Escono anche appelli firmati da intellettuali che "si fidano di D'Alema", come titola il CORRIERE della SERA di oggi dando notizia di uno della "sinistra per Israele". Noi che siamo abituati e verificare soprattutto la fiducia, non siamo così tranquilli, non avendo otre a tutto nessuna tessera di partito alla quale rendere conto. Il passato di D'Alema invece di infonderci fidicia ci proccupa. Per questo staremo attenti a come svolgerà il suo mandato. Nessuna cambiale in bianco.
Ecco la difesa d'ufficio di Umberto De Giovannangeli:
«SOLO MANTENENDO un atteggiamento non pregiudiziale verso Israele è possibile essere ascoltati e pesare quando si muovono critiche verso una politica, come quella perseguita da Netanyahu, che allontana la prospettiva della pace e mortifica il diritto al-
l’autodeterminazione del popolo palestinese». Venticinque ottobre 1996. Sull’aereo che da Damasco ci riporta a Roma, Massimo D’Alema accenna a un bilancio della sua missione in Medio Oriente. Una missione, quella dell’allora segretario del Pds, fortemente contestata dalla sinistra radicale, che imputava a D’Alema la volontà di incontrare un premier, Benyamin Netanyahu, espressione della destra oltranzista israeliana. Criticare, se è il caso, Israele per ciò che fa, mai per ciò che è: il focolaio nazionale degli Ebrei. In quella missione, di cui chi scrive fece parte, D’Alema ebbe modo di ribadire questo concetto nei tanti incontri che caratterizzarono quelle intense giornate. Incontri che misero in evidenza la ricchezza della democrazia israeliana, la sua forte, vivace pluralità: l’incontro con Netanyahu, ma anche quelli con Avraham Burg, presidente della Knesset, il parlamento israeliano, con i due contendenti alla successione di Shimon Peres alla guida del Labour, Yossi Beilin ed Ehud Barak (futuro primo ministro di Israele): con tutti la sottolineatura della necessità di operare, con il sostegno attivo dell’Europa, per rafforzare gli accordi di Oslo-Washington e per ricercare un accordo di pace globale fondato sul principio di due Stati e due popoli. L’impatto di D’Alema con le autorità israeliane, così come emerge dai tanti incontri bilaterali avuti, non ha nulla di «infuocato». Tutt’altro. «D’Alema è un politico attento, sa misurare i suoi passi e rifugge dal velleitarismo diplomatico dei francesi...», confidò all’inviato dell’Unità uno dei più stretti collaboratori dell’allora ministro degli Esteri israeliano David Levy (Likud, destra). Ma quello di D’Alema fu anche un viaggio nella sofferenza e nella disperazione dei campi profughi palestinesi. Una sofferenza che D’Alema tocca con mano visitando i desolati campi profughi di Khan Yunes e Beach Camp nella Striscia di Gaza.. Sofferenza e disperazione che dieci anni dopo rischiano di implodere in una catastrofe umanitaria. Tra gli intellettuali del dialogo che D’Alema incontra in quel viaggio c’è anche Shlomo Ben Ami che, quattro anni dopo, avrebbe guidato la diplomazia israeliana e fu tra i protagonisti della pace (fallita) di Camp David: «Ricordo quell’incontro e anche altre occasioni in cui ebbi modo di discutere con D’Alema del conflitto israelo-palestinese - ricorda Ben Ami -. Dipingerlo come un leader pregiudizialmente ostile a Israele non è solo sbagliato, è caricaturale». «Semmai - aggiunge Ben Ami - varrebbe la pena di riflettere sul concetto di “amico”. Per quanto mi riguarda, non credo che un amico, di un popolo, di uno Stato, o di una persona, sia quello che non ha il coraggia di dirti dove e su cosa hai sbagliato». «Essere amici di Israele non significa avallare ogni scelta politica compiuta da questo o quel governo israeliano, ma saper anche esercitare un intelligente diritto di critica che riguarda naturalmente ciò che Israele fa e non ciò che Israele è», gli fa eco Zeev Sternhell, tra i più autorevoli storici israeliani. A questa amicizia critica D’Alema non è mai venuto meno. Un esercizio che ha ispirato anche l’iniziativa dell’Internazionale Socialista, di cui il neo ministro degli Esteri italiano è stato, negli anni passati, uno dei dirigenti di primo piano. In una intervista avvenuta a Gerusalemme, il 25 marzo 2004, pochi giorni dopo l’uccisione da parte israeliana del fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, D’Alema delinea una ipotesi di lavoro condivisa pienamente dall’allora presidente della Commissione Europea, Romano Prodi: quella «di una forma speciale di associazione alla Ue per Israele, lo Stato palestinese, e la Giordania nel quadro di un accordo di pace basato sulle risoluzioni delle Nazioni Unite e sui confini del 1967, salvo aggiustamenti concordati tra le parti», una prospettiva fortemente caldeggiata ancor oggi dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese, il moderato Abu Mazen. In quei drammatici giorni, quando Israele sembrava dover far fronte all’«inferno» promesso dai duri dell’Intifada per vendicare la morte di Yassin, con D’Alema avemmo modo di discutere su Hamas: così come non esiste una scorciatoia militarista perché Israele veda riconosciuto e rafforzato il suo sacrosanto diritto alla sicurezza, così non esiste, né può essere in alcun modo giustificata, una «scorciatoia» terrorista perchè il popolo palestinese possa finalmente vivere in un proprio Stato indipendente: è la sintesi, non credo arbitraria, delle discussioni avute con D’Alema. Nell’incontro a Ramallah con Yasser Arafat D’Alema chiede al raìs di bloccare i propositi di vendetta di Hamas, così come ai dirigenti israeliani chiede di porre fine agli omici mirati e a sospendere al costruzione del «Muro» che frantuma e ghettizza la Cisgiordania. L’assillo costante è quello di cercare di «spezzare quel circolo vizioso, cioè l’idea che fino a quando non cessa la violenza non può esserci negoziato, e visto che fino a quando non c’è negoziato è difficile che cessi la violenza, il risultato è che siamo nella violenza...». Questo circolo vizioso, aggiunse D’Alema, «può essere spezzato soltanto recuperando lo spirito, la posizione di Yitzhak Rabin, che consisteva nel negoziare come se non ci fosse il terrorismo e, al tempo stesso, combattere il terrorismo». In questa proposizione è francamente difficile intravvedere un D’Alema «pregiudizialmente ostile» a Israele, salvo ritenere, per dirla con uno degli intellettuali palestinesi più impegnati nel dialogo, Hanna Siniora, «che chiunque sottolinei i diritti nazionali dei palestinesi venga arruolato a forza tra gli anti-israeliani».
All'articolo di De Giovannageli segue un'intervista a Avi Pazer, già ambasciatore israeliano a Roma.