Jill Hamilton Il Dio in armi
Autore: Giorgia Greco

Jill Hamilton
Il Dio in armi
Crorbaccio

Un piccolo capolavoro costruito intorno a una semplice domanda: cosa spinse il n° 10 di Downing Street a concepire e sostenere l’idea di uno stato ebraico sulle pietre semitiche di Palestina? Il saggio di Jill Hamilton, “Il dio in armi” (Corbaccio), è una lettura indispensabile per coloro che non hanno capito che Israele è un destino, la seconda parte del Salmo, dopo quella di obbrobrio e lamento. Poiché i miracoli sono pornografici, molti storceranno il naso leggendo le tesi della Hamilton, il cui padre entrò a cavallo a Damasco prima di Lawrence d’Arabia. La storica australiana sostiene che è stato l’Antico Testamento a ispirare agli esponenti governativi inglesi e americani l’idea di Medinat Yisrael. La letteratura inglese era piena di premonizioni. “Daniel Deronda” di George Eliot si concludeva profeticamente con l’eroe che ritorna a Gerusalemme con l’intenzione di dare “un’esistenza al mio popolo”. Uno stato ebraico non sarebbe mai sorto se non fosse stato per il primo ministro britannico (1916-1922) David Lloyd George. Dei dieci uomini del suo gabinetto, tre erano figli di ministri di culto e uno sarebbe diventato pastore della Chiesa riformata. Lo schemà Israel (“ascolta Israele”) esercitava un potere talismanico sulle loro decisioni. Ammaliato dai racconti su Giaffa, Gerico, Gaza e Gerusalemme, le vallate profumate di pino ed eucalipto, Lloyd George diceva di aver imparato i nomi dei fiumi e delle montagne della Terra Santa prima di quelli del Galles. Gli inglesi della fine del XX secolo erano come incantati dal nome di Bet El, dove Abramo piantò la tenda e Giacobbe sognò la scala con gli angeli; dalla solitudine accecante del sole di mezzogiorno alla porta di Sion e dalle profezie di Ezechiele che ordinò al suo popolo di nutrirsi il ventre e le viscere con il Rotolo della Torah. “A dire la schietta verità”, direbbe Amleto, sono andati “a conquistare un fazzoletto di terra che non promette alcun profitto se non nominale”. E infatti è una storia fatta di nomi e suggestioni bibliche, da quel “grano di Dio”, “collina della vita” o “faro di luce”, come i coloni ribattezzarono i loro insediamenti. Chaim Weizmann, il biochimico russo dell’Università di Manchester che fece da ponte fra i sionisti e Londra, diceva che “uomini come Balfour, Churchill, George erano profondamente religiosi e credevano nella Bibbia. Per loro il ritorno del popolo ebraico in Palestina era una realtà e di conseguenza noi sionisti rappresentavamo ai loro occhi una grande tradizione per la quale essi avevano un enorme rispetto”. E pensare che era lo stesso paese di re Edoardo I, il faraone inglese che aveva cacciato ogni donna, uomo e bambino ebreo dal suolo inglese. Thomas Carlyle diceva giustamente che i tre grandi elementi costituitivi della civiltà moderna sono la polvere da sparo, la stampa e la religione protestante. Così il cancelliere Lord Ashley, un devoto evangelico che riformò il lavoro in fabbrica, la legge contro la schiavitù, quella sugli orfanotrofi e l’obbligo di istruzione, sosteneva di essersi ispirato all’Antico Testamento e che per questo doveva servire la causa sionista. Il ministro delle colonie, l’unitariano Joseph Chamberlain, dopo i colloqui con Herzl si convinse che “l’antica città del popolo di Dio sta per riprendere un posto fra le nazioni”. E il ministro degli Esteri Balfour? Diceva che il cristianesimo non aveva mai adeguatamente ripagato gli ebrei per il dono della Bibbia. Ma Israele non sarebbe nato senza l’aiuto di Woodrow Wilson, il presidente americano figlio di ministri di culto che frequentò la Bibbia ogni giorno della sua vita. Nel maggio del 1948, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman, un fervente battista come Bill Clinton, Jimmy Carter e Lloyd George, annuncia al mondo la nascita di Israele. “Io ero Ciro, io sono Ciro”, disse fiero Truman. George W. Bush ogni mattina legge “Il mio impegno per il Signore” di Oswald Chambers, l’oscuro predicatore scozzese morto al Cairo nel 1917. Chambers lo scrisse da cappellano militare delle truppe australiane in Palestina. Quando nel 1952 morì Weizmann, sulla sua scrivania fu lasciata aperta la Bibbia al versetto che stava leggendo, quello dove si profetizza la venuta di Israele. All’ingresso del museo militare Beit Elayahu c’è una vetrina, al suo interno una pistola e una Bibbia in pelle nera. Quegli oggetti si trovano ancora sullo stesso telo di cotone su cui erano posati quando i soldati ebraici diedero vita a un esercito clandestino. Lord Byron diceva che “il colombo selvatico ha il suo nido, la volpe la sua tana, gli uomini il loro paese: Israele ha solo la sua tomba”. Gli inglesi aiutarono gli ebrei a procurarsi anche una casa.

Giulio Meotti -  Il Foglio 3 febbraio 2006