Riconoscere Israele e rinunciare al terrorismo? E' un "diktat"
lo sostiene il quotidiano comunista
Testata: Il Manifesto
Data: 31/01/2006
Pagina: 6
Autore: Michelangelo Cocco - Michele Giorgio
Titolo: Hamas rifiuta il diktat del Quartetto - La battaglia delle milizie

Il "diktat del quartetto" così definisce il quotidiano comunista, il 31 gennaio 2006, la richiesta ad Hamas di rinunciare al terrorismo e di riconoscere Israele. Ecco l'articolo di Michelangelo Cocco

«Il Quartetto avrebbe dovuto chiedere la fine dell'occupazione (israeliana) e non pretendere che le vittime riconoscano l'occupante e restino immobili di fronte all'aggressione». Con queste parole il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, in tarda serata ha respinto immediatamente la posizione espressa a Londra da Stati uniti, Unione europea, Russia e Nazioni unite, il gruppo dei quattro mediatori del conflitto israelo-palestinese. Era stato il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, a dichiarare: «Tutti i membri del futuro governo palestinese devono ripudiare la violenza, riconoscere Israele e accettare gli accordi precedenti, inclusa la road map». In Questo modo il Quartetto, pur non parlando esplicitamente di taglio immediato dei finanziamenti all'Autorità nazionale palestinese, ne ha condizionato l'erogazione nel futuro prossimo al riconoscimento d'Israele e al rifiuto della violenza da parte di un governo guidato da Hamas. Per Abu Zuhri «il Quartetto ha punito il popolo palestinese per aver espresso il proprio voto». Poche ore prima che finisse la riunione del Quartetto era arrivata la notizia che più di 30 milioni di euro (derivanti dalle tasse sui prodotti importati ed esportati dai Territori occupati nell'ultimo mese) domani non saranno versati all'Autorità nazionale. Lo hanno riferito ieri fonti di Tel Aviv citate dai principali quotidiani israeliani. Si tratta, a differenza degli aiuti internazionali, di una somma dovuta ai palestinesi. Ciononostante ieri il premier israeliano ad interim, Ehud Olmert, incontrando il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha dichiarato che «non è possibile accettare in alcun modo il passaggio di fondi ad assassini interessati alla distruzione del nostro stato». Ma nelle stesse ore in cui in seno alla Knesset (il parlamento israeliano) prevaleva la linea del «nessun rapporto con Hamas», in campo palestinese si registravano novità importanti. Fonti dell'Anp citate dall'agenzia Reuters hanno annunciato un incontro, probabilmente nelle prossime 48 ore, tra il presidente Abu Mazen e Khaled Meshal, uno dei massimi dirigenti del partito islamista, residente da anni a Damasco. Il faccia a faccia tra i due smentirebbe le voti di dimissioni di Abu Mazen e, al contrario, segnalerebbe l'intenzione da parte del presidente di partecipare a questa delicata fase di transizione. A Gaza il leader moderato di Hamas, quell'Ismail Hanyeh considerato il principale artefice del trionfo nelle urne, ha tenuto una conferenza stampa per rassicurare l'opinione pubblica internazionale: il movimento - ha detto Hanyeh - è grato all'Occidente «del sostegno finanziario e morale» e garantisce di fare buon uso dei fondi che fossero inoltrati in futuro. In un messaggio inoltrato ai dirigenti dell' Unione europea - trasmesso dall'agenzia stampa Maan - Hanyeh ha ribadito che Hamas considera i finanziamenti come «proprietàdell'intero popolo palestinese». All'interno del Quartetto l'Ue ha una linea più attendista: l'Unione è convinta che sospendere l'erogazione dei fondi (circa 600 milioni di dollari per il 2005) equivarrebbe a far crollare l'Autorità nazionale e che, senza la possibilità di pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, i Territori occupati precipiterebbero in uno stato di caos totale. La bozza di un testo circolato ieri a margine dell'incontro nella capitale britannica dice quindi che i 25 sono pronti a continuare a erogare gli aiuti, nell'attesa che un eventuale governo guidato da Hamas s'impegni formalmente a portare avanti un negoziato di pace con Israele. Una posizione intermedia quella invece ribadita anche ieri dall'amministrazione Bush, con il segretario di stato, Condoleezza Rice, che ha ripetuto che se Hamas non rinuncerà alla distruzione dello Stato ebraico gli aiuti Usa verranno bloccati. Nel frattempo, mentre circola sempre più insistentemente l'ipotesi di un governo bicefalo, con il non-negoziato con Israele gestito da politici non di Hamas e con gli islamisti tutti impegnati nella costruzione della «nuova società» palestinese, Mahmoud Zahar ha scelto gli schermi della Cnn per lanciare la sua offerta di una «tregua di lunga durata». «Ribadiamo il nostro impegno per un processo di pace attraverso negoziati internazionali - ha esordito Zahar -. Il nostro obiettivo principale è uno stato indipendente con Gerusalemme capitale che viva a fianco a Israele. Possiamo concedere una tregua di lunga durata in cambio della nascita del nostro stato indipendente sui confini pre-1967».

 

Nel momento in cui la morsa del blocco dei finanziamenti internazionali ai Territori occupati rischia di strangolare non Hamas, vincitore delle elezioni, ma l'intera popolazione palestinese, la questione del controllo sui servizi di sicurezza dell'Anp potrebbe portare Al-Fatah e il movimento islamico in rotta di collisione. Hamas infatti avrà governo e parlamento ma non la sovranità sulle forze sicurezza - polizia e decina di agenzie con 30-40mila agenti regolari più altri 20mila non inquadrati - sui quali, secondo lo statuto dell'Anp, ha autorità il presidente Abu Mazen, leader di Al-Fatah. Uno scontro tra le due parti per ora è escluso: in casa palestinese si vuole evitare che il terremoto politico della scorsa settimana apra la strada a un confronto dalle conseguenze imprevedibili. Ma potrebbe farsi più vicino nelle prossime settimane, se alcuni noti esponenti dell'Anp usciti sconfitti dal voto faranno dei servizi di sicurezza la roccaforte del loro potere personale. Tutto ciò mentre il mondo, concentrato sull'ascesa al potere di Hamas, non si accorge che i coloni israeliani stanno per vincere una nuova battaglia a danno dei palestinesi. Con una «soluzione creativa», i coloni che da cinque anni occupano illegalmente il mercato di Hebron hanno accettato di lasciare volontariamente l'area grazie a una intesa raggiunta con il governo di Ehud Olmert che darà loro, in seguito, la proprietà sul territorio e le case lasciate. Il procuratore generale dello Stato, Menachem Mazuz, ha smentito l'esistenza di un compromesso ma il portavoce dei coloni, Naom Arnon, è stato rapido nel ribattere che «c'è un accordo nelle nostre mani. Intendiamo rispettarlo e ci attendiamo che l'altra parte lo faccia». In base all'intesa, i coloni si sono impegnati a lasciare l'area entro la mezzanotte di ieri e in cambio il governo avrebbe promesso loro la possibilità di rioccupare la zona, in futuro. Il mercato di Hebron era stato chiuso dall'esercito israeliano già nel 1994, dopo la strage provocata da un estremista israeliano - Baruch Goldstein - nella Tomba dei Patriarchi in cui vennero uccisi 29 palestinesi. Da allora il mercato non è stato più riaperto. Nove famiglie di coloni vi si sono insediati nel 2001, dopo l'uccisione di una bimba i 10 mesi, Shalhevet Pass, attribuita a militanti dell'Intifada. I palestinesi hanno reagito con rabbia alla notizia dell'intesa. «Le case occupate sono nostre. Combatteremo per riaverle», ha detto Mohammed Nasserdin, un commerciante. Hamas rischia di ritrovarsi nelle mani un enorme potere politico non sostenuto però dalla forza militare. Con i servizi sotto il controllo di Al-Fatah, il movimento islamico finirà per essere sorvegliato costantemente dal partito rivale. Non è un caso che tre importanti esponenti di Al-Fatah, Mohammed Dahlan e Jibril Rajub, che in passato hanno guidato il servizio di sicurezza preventivo, e il ministro dell'interno uscente Nasser Yusef, si siano affrettati a riaffermare il controllo del presidente Abu Mazen sugli apparati militari. La proposta fatta tre giorni fa dalla guida suprema di Hamas in esilio, Khaled Mashaal, di unificare le forze di sicurezza e le milizie delle varie forze politiche in un esercito nazionale è evidentemente volta anche a sottrarre ad Al-Fatah un potere che potrebbe rivelarsi decisivo. Non sorprende che Atef Adwan, uno dei leader emergenti di Hamas, abbia dichiarato che l'intera la struttura gerarchica dei servizi di sicurezza dovrà essere «profondamente rivista». Ad aprire la polemica era stato due giorni fa il comandante della polizia Ala Hosni che ha cercato di placare le proteste dei suoi uomini per l'esito del voto del 25 gennaio, precisando che le forze di sicurezza resteranno sottoposte al comando supremo del presidente e non del futuro primo ministro. Parole a cui il portavoce del movimento islamico, Sami Abu Zuhri, ha replicato dicendo che «Alaa Hosni è solo un funzionario dell'Anp». Hamas ha addirittura accusato il ministro dell'interno Nasser Yusef di aver ordinato di portare via le armi dagli arsenali dell'Anp e di nasconderle in località segrete. Accuse che Nasser ha respinto. Ad aggravare la tensione si sono aggiunte le proteste per l'iniziativa dei giornali Jyllands-Posten (danese) e Magazinet (norvegese) che hanno pubblicato caricature di Maometto scatenando proteste in tutto il mondo islamico. Ieri mattina un commando delle «Brigate dei Martiri di Al Aqsa» ha tenuto una protesta di fronte a un ufficio dell'Ue a Gaza e ha intimato ai cittadini di Danimarca e Norvegia di non entrare nella Striscia. Intanto ha cambiato idea il presidente palestinese Abu Mazen che prima delle elezioni aveva parlato di dimissioni in caso di una vittoria elettorale di Hamas. Al termine dell'incontro avuto ieri con il cancelliere tedesco Angela Merkel a Ramallah, ha affermato di voler concludere regolarmente il suo mandato alla guida dell'Anp. «Nulla impedisce di completare i tre anni che mi restano e ho intenzione di continuare a mettere in pratica la mia politica nel corso di questo periodo», ha detto.

Michele Giorgio, nell'articolo "La battaglia delle milizie" lancia l'allarme: distratto da un questione secondaria come la vittoria di Hamas il mondo rischia di non vedere il vero pericolo per la pace in Medio Oriente: un piccolo gruppo di ebrei che vuole vivere a Hebron nelle case da cui gli ebrei furono scacciati con un pogrom nel 1929. Interessante anche la definizione degli spari delle Brigate Al Aqsa davanti agli uffici Ue a Gaza e delle minacce rivolte ai cittadini di Danimarca e Norvegia (cui è stato intimato di non entrare nella striscia). Si tratterebbe secondo Giorgio di una forma di "protesta". Ecco l'articolo:

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