Pro e contro l'ingresso di Israele nella Nato
una proposta del ministro della Difesa italiano Antonio Martino
Testata: Il Foglio
Data: 31/01/2006
Pagina: 2
Autore: Alessandro Corneli - Antonio Missiroli
Titolo: Israele nella Nato, sì - Israele nella Nato, no
Il ministro della Difesa italiano Antonio Martino ha proposto, in un'intervista a Radio 24, l'ingresso di Israele nella NATO. Il FOGLIO di martedì 31 gennaio  presenta due divergenti opinioni sulla proposta. Quella di Alessandro Corneli, favorevole. E quella di Antonio Missiroli, direttore dell'European Policy Center, contrario. Ecco l'articolo di Corneli: 

Roma. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è avvisato: attaccare Israele per cancellarlo dalla carta geografica e politica del medio oriente potrebbe voler dire attaccare la Nato. Sì, perché l’idea di un ingresso di Israele nella Nato – rilanciata ieri dal ministro della Difesa, Antonio Martino, sebbene a titolo personale – potrebbe fare strada. Il segnale non riguarderebbe naturalmente soltanto Teheran, ma anche il futuro governo palestinese gestito da Hamas, giunto al potere dopo la vittoria del 25 gennaio alle elezioni palestinesi. Martino è stato cauto: anzitutto ne parlerà con il ministro degli Esteri, Gianfranco Fini; se ci sarà il suo accordo, l’ipotesi potrebbe essere lanciata in modo informale al vertice dei ministri della Difesa della Nato, che si terrà ai primi di febbraio in Italia. Alcuni giorni fa, un paper della Heritage Foundation, il think tank che da oltre venticinque anni ispira i presidenti repubblicani, ha suggerito questa linea: gli Stati Uniti dovrebbero proporre l’adesione di Israele alla Nato per far capire all’Iran che l’occidente non tollererà che si doti di armi non convenzionali per la semplice ragione che una Repubblica islamica con denti nucleari spingerebbe altri paesi dell’area – anzitutto Turchia, Arabia Saudita ed Egitto – a procurarsi lo stesso tipo di armi a scopo precauzionale, aumentando il rischio di un conflitto regionale condotto con l’uso di armi nucleari. C’è un’altra ragione dietro questa proposta: Israele non può ripetere contro gli impianti nucleari iraniani il blitz che fece nel 1981 contro l’impianto iracheno di Osirak, su cui Saddam Hussein riponeva i suoi sogni di grandezza. Teheran ha appreso la lezione e ha sparpagliato i siti nel suo ben più vasto territorio, ne ha costruiti di sotterranei a prova di attacco e altri li ha collocati in prossimità dei centri urbani. Una grappolo di raid non soltanto non darebbe la certezza del risultato, ma provocherebbe danni alla popolazione civile, tale da legittimare, agli occhi del suo popolo e dell’opinione pubblica, una rappresaglia del governo iraniano contro Israele. La proposta di far entrare Israele nella Nato ha un duplice significato. Il primo, ovvio, è che Israele non è solo e non viene abbandonato di fronte alle aggressioni dell’Iran (appoggio a gruppi terroristici a parte). Il secondo è che, entrando nella Nato, Israele avrebbe le mani legate, sarebbe un po’ meno libero di reagire a una minaccia imminente o a un attacco, sebbene il Trattato lasci margini per una risposta individuale. In Israele c’è chi non condivide questa prospettiva, proprio perché priverebbe lo Stato ebraico di una completa libertà d’azione. Ma un conto era essere liberi di fronte a vicini inferiori dal punto di vista militare e un conto sarà continuare a essere liberi in un contesto di sicurezza nuovo. Poi sono da prevedere obiezioni da parte di alcuni ambienti europei, che esiterebbero ad accettare la formula “morire per Israele”. Più intelligence per la guerra al terrorismo Nei confronti dell’Europa Martino è stato pungente nel lanciare l’idea di Israele nella Nato, sottolineando che “l’incapacità dell’Unione europea di darsi una politica estera unitaria e coerente è un fatto vero, anche se non sempre, e grave”. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, a Gerusalemme, incontrando il premier israeliano Ehud Olmert, ha assicurato che l’Ue non tratterà con i terroristi e non ne finanzierà il governo, ma con Hamas e l’Iran il problema non si riduce a una questione di soldi: l’Arabia Saudita ha già promesso 100 milioni di dollari al presidente palestinese Abu Mazen. Occorrono risposte chiare per non finire come con l’Iraq, dove sono passati dieci anni tra la fine della prima guerra del Golfo e l’abbattimento del regime di Saddam che quel conflitto aveva provocato. Se la Nato mettesse piede in medio oriente ne uscirebbe rafforzato il fronte dei paesi filo occidentali, che si muovono verso la democrazia. L’Iran dovrebbe pensare ai costi di un suo crescente isolamento e soprattutto dovrebbe abbandonare l’idea di infiammare tutto il mondo islamico contro Israele. Anzi, il mondo islamico avrebbe una prova decisiva della determinazione occidentale a non abbandonare Israele. Anche Hamas dovrebbe rivedere il suo obiettivo statutario di distruggere Israele. Infine, la guerra contro il terrorismo sarebbe rafforzata da un organico collegamento dell’intelligence israeliana con quella della Nato. La formalizzazione diplomatica del disegno accennato da Martino è ancora lontana, ma contiene una risposta strategica di peso, che con il nuovo governo in Germania e un certo riavvicinamento della Francia a Washington può trovare consenso e ripristinare una credibile solidarietà occidentale.

Di seguito, l'articolo di Missiroli

 Bruxelles. In un’intervista rilasciata ieri al programma di Radio 24/Il Sole 24 Ore “Vivavoce”, il ministro della Difesa, Antonio Martino, ha espresso – assieme ad altre considerazioni sulle elezioni palestinesi e sul quadro strategico mediorientale – un’idea che richiederebbe qualche riflessione prima di essere lanciata nell’arena politica, soprattutto internazionale. Martino ha affermato che, “anche alla luce della grave e preoccupante posizione iraniana, è venuto il momento di pensare all’ammissione di Israele nella Nato, in modo che un eventuale attacco contro Israele sarebbe un attacco contro tutta la Nato”. La proposta, ha aggiunto, potrebbe essere presentata – previa consultazione con il ministro degli Esteri, Gianfranco Fini – nella riunione informale dei ministri della Difesa della Nato, che si terrà in Italia all’inizio di febbraio. Israele nella Nato? Perché no, viene da dire: è una democrazia, un libero mercato funzionante e la sua sicurezza e la sua stabilità (non soltanto il suo diritto all’esistenza) sono obiettivi strategici condivisi da tutti i governi che fanno parte dell’Alleanza. Visto che la Nato ha aperto le sue porte a molti negli ultimi anni e continuerà a farlo anche nei prossimi – con i paesi balcanici e l’Ucraina già in lista d’attesa – perché non pensare anche a un’espansione in medio oriente? E’ questa la tesi illustrata qualche tempo fa da due analisti dell’Heritage Foundation, prestigioso think tank americano. Ma perché Israele stesso non ha avanzato questa ipotesi? Le ragioni sono almeno tre: primo, Israele sa difendersi piuttosto bene da solo, sia dal punto di vista convenzionale – lo dimostrano le numerose guerre vinte contro i paesi arabi vicini – sia dal punto di vista strategico, almeno fino a che sarà l’unico paese nella regione a disporre di un deterrente nucleare, sia pure non dichiarato. Secondo, se e quando decide di affidare la propria difesa ad altri, lo fa solo a vantaggio degli Stati Uniti: è successo già durante la prima guerra del Golfo, nel 1991, quando Saddam Hussein lanciò un paio di missili tattici in direzione del territorio israeliano e Tsahal decise di non reagire, vista la presenza nella regione dell’armata guidata da Norman Schwarzkopf. Terzo, entrare in un’alleanza militare istituzionalizzata, con 26 membri dotati (almeno sulla carta) di pari capacità decisionale, significa sia negoziare con gli alleati le proprie priorità strategiche sia integrare le proprie forze in una struttura sovranazionale: lo fa perfino la Francia, che pure è uscita dalle strutture militari comuni circa quarant’anni fa. Significa insomma rendere le proprie scelte più trasparenti e più interdipendenti. La politica di sicurezza di Israele, al contrario, è caratterizzata da un minimo di trasparenza e da un massimo di unilateralismo – per ragioni che si possono ritenere giustificate, ma che non cambiano il quadro – e si combina perciò bene con la “special relationship” con Washington, ovvero con accordi di cooperazione ad hoc, come quello siglato alcuni anni fa con la Turchia. Ripercussioni sulle missioni già in atto E’ poi necessario valutare se un’eventuale adesione di Israele converrebbe alla Nato. A parte il fatto che il dibattito interno potrebbe essere molto lacerante – e l’Alleanza di tutto ha bisogno in questa fase salvo che di altre divisioni politiche – Israele sarebbe un alleato molto scomodo proprio perché coltiva ed esercita una grande discrezionalità nelle sue operazioni, alcune delle quali (come gli assassinii mirati) non sono necessariamente condivise da diversi governi alleati e finirebbe per corresponsabilizzarvi anche la Nato. Negli ultimi anni, l’Alleanza è uscita dal teatro europeo per impegnarsi in paesi islamici: l’Afghanistan e l’Iraq, essenzialmente, senza contare la recente operazione di soccorso post terremoto in Kashmir. Quali ripercussioni avrebbe su di esse la prospettiva di un’adesione di Israele? E come potrebbe l’Alleanza proporsi credibilmente come forza di interposizione o di garanzia in medio oriente – secondo l’idea più volte avanzata da Thomas Friedman – qualora avesse una delle parti in causa come suo membro a pieno titolo?

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio

lettere@ilfoglio.it