Prima di ogni trattativa, che Hamas rinunci al terrorismo e rispetti i diritti umani
intervista a Natan Sharansky
Testata: Corriere della Sera
Data: 31/01/2006
Pagina: 5
Autore: Davide Frattini - Guido Olimpio
Titolo: «Prima i diritti umani, poi il negoziato» - I miliziani si guardano in tasca Rischio di resa dei conti armata

Intervista Natan Sharansky sulla vittoria elettorale di Hamas, sul Corriere della Sera di martedì 31 gennaio 2006:

Mentre i palestinesi votavano in massa per Hamas, Natan Sharansky era negli Stati Uniti, ricevuto alla Casa Bianca per una serie di incontri. Non è più un ministro del governo israeliano (se n'è andato nel maggio 2005 per protesta contro il ritiro da Gaza), resta uno degli intellettuali più ascoltati dalla squadra di George W. Bush. Il suo libro In difesa della democrazia. Il potere della libertà contro ogni forma di regime (Sperling & Kupfer) è stato a lungo sul comodino del presidente americano, che gli ha regalato una pubblicità globale.
Eroe del dissenso sovietico che ha passato nove anni in cella, è candidato per il Likud alle elezioni del 28 marzo. Un ritorno alla politica, dopo il periodo di studio allo Shalem Center di Gerusalemme, dove sta lavorando a un saggio su nazioni e identità. Identità forti: quella che può esprimere un movimento fondamentalista pronto a imporre la sharia
come legge dello Stato. «Il problema non sono le norme islamiche. L'Occidente dev'essere pronto ad accettare Stati guidati da integralisti che hanno vinto un confronto democratico. Il problema è che quello di Hamas sarà uno Stato terrorista. I palestinesi si sono trovati a dover scegliere tra una dittatura corrotta che non si preoccupa di loro e dei terroristi non-corrotti che promettono migliori condizioni di vita. I risultati delle urne sono nitidi, ma non è democrazia».
Lei ha sempre ripetuto che, fin dagli accordi di Oslo, Israele ha sbagliato a non legare il processo di pace alle riforme democratiche nell'Autorità palestinese.
«Dodici anni fa abbiamo deciso di accettare il regime di Yasser Arafat e questo ha aperto la strada al successo di Hamas. I negoziati sarebbero dovuti arrivare dopo le riforme, non prima. La democrazia non può nascere in un giorno, è un processo».
Israele — lei dice — dev'essere pronto a convivere con una Palestina sotto la sharia. Ma quali istituzioni proteggerebbero i laici o le donne?
«Anche il rispetto dei diritti umani andava legato al processo di pace. Siamo sempre stati consapevoli dei delitti d'onore, ma non ci siamo mai preoccupati di dire: niente trattative, se prima non vengono garantite le donne. Hamas ha incoraggiato mogli che sarebbero state uccise dai mariti a cancellare il disonore facendosi saltare come kamikaze. Stiamo parlando di un paese guidato da un gruppo di potere che non rispetta i diritti umani».
Crede che un futuro Stato palestinese si trasformerà in una delle «società della paura» che descrive nel suo libro?
«Dobbiamo chiederci se vogliamo la pace a ogni costo. Non possiamo continuare a permettere una dittatura, come abbiamo fatto con Arafat, altrimenti diventerà certamente una "società della paura". Una volta stavo parlando nel campus di un'università americana, un ragazzo palestinese ha raccontato di essere gay e che per lui era impossibile vivere in Palestina. Allora ho chiesto agli altri studenti come possano allo stesso tempo difendere i diritti degli omosessuali e appoggiare l'Autorità che li perseguita. Ripeto: dobbiamo ancorare qualunque trattativa ai diritti umani, che rappresentano il blocco fondamentale di una società democratica».
Partecipare al processo politico renderà Hamas più moderato?
«Continuano a parlare come un'organizzazione terroristica. Prima devono dimostrare di voler veramente cambiare. Questo vuol dire smantellare l'ala militare e rinunciare ai loro obiettivi strategici. Per Israele è proibito trattare con un gruppo che punta ancora alla sua distruzione».
Quali pressioni può mettere in atto l'Occidente?
«L'Autorità non può esistere senza il sostegno e la legittimazione del mondo libero. Che deve proclamare chiaramente e senza indugi: nessun aiuto a un movimento che appoggia il terrorismo».
Quali sono le responsabilità dell'Europa nella crescita di Hamas?
«Gli europei hanno sempre esercitato grandi pressioni su Israele perché rafforzasse l'Autorità e negoziasse con organizzazioni che non avevano rinunciato al terrorismo. Questo ha dato ai palestinesi troppa fiducia nei loro metodi, ha fatto credere che si potesse continuare con gli attentati. Tutta la strategia che cerca la stabilità attraverso l'appeasement è un errore. L'unico risultato è quello di rafforzare i terroristi».
Sharansky, 58 anni, eroe del dissenso sovietico. Il suo libro «In difesa della democrazia» è stato sponsorizzato da Bush
Israele non può trattare con un gruppo che vuole la sua distruzione
L'Europa deve capire che cercare la stabilità con l'appeasement è un errore

A pagina 5 Guido Olimpio spiega il ruolo del denaro e del  controllo su di esso  nella lotta politica palestinese e discute la possibilità di scoppi di violenza interna dopo la vittoria di Hamas. Ecco il testo:

Nuaf El Sheikh, palestinese di cinquant'anni, si è messo in testa che i seguaci di Arafat avessero nascosto un tesoro di 50 milioni di dollari sul monte Meron. Armato di pala, piccone ed esplosivi ha iniziato le ricerche ma è stato subito bloccato dalla polizia israeliana. Un piccolo episodio alimentato dalle voci sul «tesoro» dell'ultimo raìs. Centinaia di milioni sottratti alle casse palestinesi per manovrare gruppi armati e condizionare la scena politica. Come altrove, anche in Palestina il denaro è una voce importante nello scontro politico. E infatti si stavano ancora contando i voti che l'Autorità palestinese ha subito chiesto aiuto per pagare 135 mila dipendenti, di cui 58 mila poliziotti. Totale: 60 milioni di dollari. Ma la vittoria elettorale di Hamas ha spinto i generosi donatori internazionali ad una «pausa di riflessione», per soppesare l'invio di altri fondi. Un problema che riguarda soprattutto l'Unione Europa che stanzia ogni anno oltre 500 milioni di dollari distribuiti tra l'Autorità palestinese e altre entità locali. Non sono, certo, pochi spiccioli.
Ed ecco che il rischio di uno stop agli aiuti è stato seguito da una immediata agitazione sul terreno. Le Brigate Al Aqsa (Fatah) hanno mostrato i muscoli cercando di rilanciare la sfida. Hamas ha dichiarato di pensare a «fonti alternative» (Paesi arabi, Iran, collette). Una prima risposta è venuta dall'Arabia Saudita che avrebbe promesso di versare 100 milioni di dollari. Sessanta serviranno all'Autorità per gli stipendi, il resto per le emergenze.
Il flusso di dollari o euro non è solo una questione politica ma è sociale. Ogni ministero rappresenta un piccolo potentato, con il responsabile che assume spesso con criteri clientelari. Del resto in Palestina, con il progressivo crollo di qualsiasi autorità (dovuto alla debolezza delle istituzioni e alle incursioni israeliane), l'uomo della strada cerca appoggi nella famiglia allargata. O meglio nella
hamulla, il clan. Che ti protegge, ti aiuta, ti sostiene. Il capo della polizia «arruola» nella sua hamulla, così fa il responsabile del dicastero. Un cambio di poltrone può avere conseguenze non da poco sulla vita di centinaia di essere umani.
In alcuni casi la hamulla si è trasformata in una impresa a delinquere. Nella striscia di Gaza c'è il clan che controlla i traffici dei tunnel clandestini (dalle sigarette alla droga, dalle armi ai prodotti elettronici) che collegano la zona palestinese all'Egitto. Quando non hai una base etnica, puoi creartela — così ha fatto Mohammed Dahlan — mescolando gli affari alla sicurezza. L'agente o il miliziano sono i tuoi soldati, ma anche i tuoi compari. Se il sistema è in pericolo — e il successo di Hamas lo minaccia — c'è chi è pronto a imbracciare il fucile. Un rapimento, un assalto possono rappresentare l'inizio di una trattativa sui soldi.

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