Masha Rolnikaite Devo raccontare
Autore: Giorgia Greco

DEVO RACCONTARE - Masha Rolnikaite, Edizioni Adelphi

Masha è un ebrea sovietica nata in Lituania, divenuta polacca e scampata allo sterminio; la più giovane Dominika dalla natìa Praga è approdata in Australia. Così diverse, eppure così vicine. Non potrebbero essere più lontane le storie di Masha Rolnikaite e Dominika Dery. Opposte tanto che le due protagoniste (e autrici), specchiandosi l’una nell’altra, finirebbero alla lunga per riconoscersi. Masha – o Masa, o Mar’ja Grigo'evna, a seconda della diversa grafia yiddish, lituana o russa del suo nome – ha intrecciato nella fibra di un’unica, straordinaria personalità il tessuto di un’identità non solo nominalmente lacerata dall’esperienza di cittadina sovietica nata in Lituania, divenuta polacca e rimasta incessantemente figlia di Israele: sopravvissuta quale ebrea (fino all’oggi che, ottantenne, la trova a San Pietroburgo) all’occupazione hitleriana e allo sterminio nazista, forte dell’obbedienza all’imperativo: Devo raccontare. Dominika ha scritto il proprio nome sempre allo stesso modo: che fosse costretta a traslitterarlo nel cirillico obbligatorio per gli scolari della nativa Praga sovietica, o immaginasse di pronunciarlo all’inglese nella Sydney dove l’hanno portata, Sulle punte, i suoi passi leggeri di ballerina oggi trentenne. Le due donne non si sono mai incontrate. Né potrebbe avvicinarle lo spazio che si spalanca tra loro situandole agli opposti emisferi: esiliate, in Russia o in Australia, dalla terra d’origine. O il tempo: che le allontana ritmando sulla misura di un buon mezzo secolo il ciclo di ritorni dell’orrore nella storia. O l’infanzia di guerra: quella "fredda" per la più giovane, che sentì passare come un brivido sulla pelle le divisioni corse in seno al Vecchio Continente dopo la catastrofe mondiale, e la mondiale per la maggiore, la seconda, che fece esplodere l’ordine europeo esponendolo a lunghissimi contraccolpi globali. Di segno contrario anche i totalitarismi che un’impronta indelebile hanno inciso nella loro memoria: marchio di discriminazione, traccia di deportazione, ferita di lutto nella coscienza della tredicenne di sessant’anni fa e nella carne viva dei suoi familiari; sigillo di una cortina tesa a blindare i confini della Cecoslovacchia occupata e a oscurare il raggio di una tiepida primavera per la ballerina in erba e i suoi genitori dissidenti alla fine degli anni ’60. Identica è però la loro memoria di bambine. Tenera e impressionabile: cedevole a registrare – in yiddish, la lingua della comunità di fede, o in inglese, la lingua della libertà per l’arte –, una testimonianza impressionante e veritiera.

Alessandra Iadicicco , da Famiglia Cristiana