Dal 7 ottobre ad oggi, con una frequenza quasi quotidiana, sono sommerso di insulti sui miei canali social. Inizialmente, con un’ingenuità che non mi definisce, ho pensato che la mia professione di giornalista e di corrispondente in un luogo teso e conteso come Israele, fosse il motivo di tanto dissenso nei miei confronti. Poi, in un momento di lucidità, ho deciso di confrontarmi con alcuni colleghi, anche loro giornalisti e corrispondenti, per cercare di capire se il trattamento speciale fosse davvero speciale. Riservato quindi solo a me. Con grande sorpresa (e altrettanta amarezza) ho scoperto di essere solo in questa battaglia social. Così, durante una notte insonne, ho provato a scomporre e ricomporre i tasselli del puzzle per cercare di capire cosa mi distingua dagli stimati colleghi. Ho dunque letto i miei articoli e i loro, confrontato le mie interviste e le loro, ascoltato i miei interventi televisivi e radiofonici e i loro. Nulla. O meglio, nulla che giustificasse tanto accanimento nei miei confronti. Nessun elemento stilistico o narrativo o ideologico che spiegasse l’odio e la violenza dei messaggi che io ricevo e loro no.
Poi, con un tempismo inquietante, mi è arrivato l’ennesimo messaggio: «Brucia ebreo di merda».
D’un tratto ho capito. Io, a differenza dei colleghi, sono ebreo. Attenzione, non un ebreo qualunque, ma un ebreo dichiarato, credente e osservante, con la kippà in testa, ovvero quella piccola e innocua papalina nera che non dovrebbe dar fastidio a nessuno, ma che in qualche modo attira sempre a sé sguardi biechi e torvi. Un pezzo di stoffa incriminato e incriminante. Ecco, ora l’immagine si fa chiara. Proprio come mi ha detto la scrittrice e testimone Lia Levi in un’intervista pubblicata sulle pagine di questo quotidiano: «L’antisemitismo è sempre esistito, a tratti, ma attraverso gli anni si è abilmente nascosto salvo poi riemergere sotto nuove forme. In tempi più vicini a noi, eccolo riapparire come attacco ideologico e sempre più incalzante contro lo Stato Ebraico. Criticare Israele, si sosteneva, è antisionismo ed è, perciò, del tutto ingiusto considerarlo antisemitismo. Adesso è caduta la maschera. Gli attentatori e l’opinione pubblica cosiddetta progressista, nei loro attacchi hanno chiaramente colpevolizzato gli ebrei». Proprio così, le maschere sono cadute. Ora gli odiatori si mostrano alle loro vittime senza filtri e senza pudore.
Tuttavia, quando entro sui loro profili social nell’intento di trovarne l’essenza del male, scopro invece la banalità del male. Incontro visi umani e assolutamente normativi. Coloro che mi augurano di morire odi bruciare, infatti, sono degli italiani perbene, sorridenti, abbracciati ai figli, sdraiati in spiaggia con il gelato ad agosto o in vacanza sulle piste da sci a dicembre. Italiani confusi, che mi scrivono «Vaffanculo sionista» o «Che tua madre si fotta, dovete morire tutti» o ancora «Sei te il terrorista, non Hamas» o peggio «Sei il nuovo nazista», ma che accanto al loro nome fanno sventolare fiera l’emoji della bandiera LGBT. Come glielo spiego a questi italiani che a Gaza, se ti dichiari omosessuale, rischi la pena di morte? Come replico ai messaggi delle odiatrici ipocrite che si dichiarano femministe convinte, ma che sostengono una dittatura islamica che reprime la donna e le impedisce di viaggiare se non accompagnata dal marito? Una risposta ancora non ce l’ho e intanto, nel dubbio, segnalo e blocco tutti, nella speranza che l’algoritmo di Zuckerberg sia più generoso con me di quanto non lo siano i miei connazionali. Gli stessi connazionali di cui ieri ero fratello e amico, e di cui oggi sono acerrimo nemico. Un dispiacere, una sconfitta, una delusione. Ma non avevamo detto Mai più?
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