Sulle vignette danesi due interventi ragionevoli
contro la linea fin qui seguita dal giornale
Testata: La Repubblica
Data: 09/02/2006
Pagina: 1
Autore: Mario Pirani - Timonthy Garton Ash
Titolo: L'Islam , l'Occidente e lo scontro di civiltà - Bandiera danese, bandiera d'Europa

In contrasto con la linea fin qui adottata, su La REPUBBLICA di giovedì 9 febbraio 2006 si fanno sentire, a proposito della vicenda danese,  voci più o meno ragionevoli. Quella di Mario Pirani: 

Se quelle vignette che hanno scatenato l´ira funesta del mondo musulmano non fossero mai state pubblicate non è affatto detto – anzi è altamente probabile –che un´altra occasione (un libro, un film, un articolo di giornale, ecc.), fra le tante che si presentano ogni giorno in ogni angolo della terra, sarebbe stata presa a pretesto con identico scopo per similari manifestazioni. Magari anche attraverso una falsificazione, come in parte risulta il dossier fatto circolare nelle capitali islamiche dove, oltre alle vignette autentiche, ne figurano altre estremamente blasfeme che nessun giornale occidentale ha mai pubblicato.
La diffusione, ancora rigogliosa dopo circa un secolo, dei "Protocolli dei Savi di Sion" insegni. Per contro, l´asimmetrica e paradossale sproporzione tra il microscopico fattore scatenante e le dimensioni globali di una protesta che, in nome di una presunta insopportabile offesa, secerne per piazze, contrade e moschee odio, aggressività, ritorsioni e una assurda chiamata di correo nei confronti di un intero continente, l´Europa, dell´Ue in quanto tale e dei suoi singoli Stati, è questo il fenomeno che occorre capire. Altro che discettare sui limiti della libertà di satira o impancarsi a preoccupati difensori del rispetto assoluto dovuto ai sentimenti religiosi e, così di seguito, balbettare penosi mea culpa, auspicando comportamenti più virtuosi e attenti ai sentimenti delle "vittime" del malaccorto insulto danese. Costoro sono in genere gli stessi che sembrano ossessionati dalla intuizione di Huntington sullo "scontro di civiltà" come probabile forma dei nuovi conflitti e che vorrebbero esorcizzarla negando diritto di cittadinanza a quella definizione. Con la scusa di impedire che la sciagurata profezia s´inveri. Che tale, però, non è, ma, se mai, solo una problematica ipotesi interpretativa, suffragata da molti fatti, del carattere cultural-religioso (un tempo si sarebbe detto "sovrastrutturale") che tendono ad assumere oggi grandi conflitti internazionali, sia allo stato bellico che a quello dello "scontro con altri mezzi". Da questo punto di vista andrebbe aggiornato anche Clausewitz e capire, per esempio, che la jihad islamica, pur nelle fasi in cui le armi sono accantonate, è l´ultima versione del celebre assioma del teorico prussiano sulla "guerra come proseguimento della politica con altri mezzi".
Per chi accetta questo adeguamento dell´antico assunto, dovrebbe apparire evidente come l´ondata emotiva, violenta e aggressiva, di queste settimane altro non sia che una scansione drammatica di una jihad di cui il terrorismo kamikaze è solo un braccio armato, destinato a crescere e riprodursi come pesce nel mare. Una ondata che, non a caso, parte qualche mese dopo la pubblicazione, dal momento in cui essa viene portata a conoscenza e "arricchita" con allegati inventati della centrale cairota dei Fratelli musulmani, e il grande imam dell´Università di al Azhar, lo sceicco Tantawi, la brandisce come un´arma. Mentre la Tv Al Jazeera la trasmette su tutti gli schermi del Medio Oriente e gli hezbollah in Libano come Hamas in Palestina ne traggono ulteriore motivazione di lotta armata.
Siamo, quindi, di fronte ad un capitolo di quella guerra mondiale di nuovo tipo, scatenata dal fondamentalismo religioso islamico – con fasi di bassa intensità, altri di dirompente attacco, altri di violenza mass mediatica – che si è aperto con le Due Torri, è proseguito con gli attentati di massa di Madrid, Londra, Bali, Istanbul, ecc. e conosce in queste settimane la versione della ricattatoria aggressione all´Europa, ai suoi simboli, ai suoi interessi commerciali per costringerci ad accettare anche nel nostro Continente, non il rispetto più che dovuto all´emigrazione araba e alla sua libertà religiosa, ma la sottomissione dei nostri paesi ad alcuni principi della legge coranica... magari camuffati da difesa e rispetto assoluto e acritico dei valori religiosi in generale. I quali andrebbero, come hanno subito scritto volenterosi intellettuali nostrani, salvaguardati da disposizioni di legge o, quanto meno, da norme di comportamento moderate e prudenti. Vorrà dire che i non credenti dovranno addolcire la formula di Carlo Marx e limitarsi a dire che "la religione è il metadone dei popoli", in luogo del troppo irridente «oppio». Dubito, peraltro, che i promotori di siffatta iniziativa internazionale abbiano come loro preoccupazione la salvaguardia delle sensibilità congiunte di imam, vescovi e rabbini quanto testare, attraverso violente campagne simboliche mass mediatiche, la capacità di infiammare e mobilitare gli adepti, intimorire gli incerti, spingendoli ad adeguarsi, dividere gli avversari e costringerli ad arretrare persino da posizioni di principio. Se oggi è l´immagine di Maometto il simbolo innalzato ad orifiamma, domani potrà essere una legge laica francese, oppure l´esecrazione o, al contrario, l´approvazione all´entrata della Turchia nell´Ue, a seconda se gli ayatollah la reputeranno una contaminazione sacrilega oppure l´inizio di una "reconquista" all´incontrario; o, ancor meglio, la sorte di Gerusalemme e la intimazione all´ostracismo contro Israele (con quanta facilità sta già passando come "normale" il negato riconoscimento da parte di Hamas).
Se così stanno le cose, come del resto si evince dalle ultime cronache della stampa (vedi le puntuali ricostruzioni di Guido Rampoldi e di Anais Ginori su "Repubblica") sulla tempistica di tutta la vicenda, la questione sta nel saper analizzare ma anche nel saper resistere a questo fenomeno di pressione violenta che si incrocia, nel contesto generale della jihad in atto, con la vittoria di Hamas in Palestina, l´affermazione dei Fratelli musulmani al Cairo, la guerra in Iraq, la cui origine appare ognor più dissennata, il ritorno offensivo dei talebani in Afghanistan, i torbidi giochi di Damasco e, più allarmante di tutto, il disegno nucleare di Teheran.
L´appello e la mobilitazione spregiudicata delle masse islamiche, frustrate e diseredate, è parte dell´angoscioso puzzle che ci concerne tanto da vicino.
Qui, però, deve essere ben avvertita la presenza di uno spartiacque discriminante, anche fra chi non respinge aprioristicamente l´ipotesi che il multiforme conflitto in atto abbia la natura di uno "scontro di civiltà" e non, poniamo, di una guerra per nuovi confini, la spartizione delle zone di influenza o, persino, il petrolio. Solo che, checché ne pensino nella loro stupidità razzista gli islamofobici di varia scuola, dai vignettisti di Copenaghen ai leghisti alla Borghezio, questo scontro non è affatto delimitato dalla frontiera tra le tre grandi religioni monoteiste: da un lato i cristiano-giudaici e, dall´altra, i maomettani. No, la sfida mortale parte all´interno del mondo islamico e qui conosce, ancor oggi, il numero maggiore di vittime: da quelle ascrivibili al primo trionfo dei talebani in Afghanistan, quando questi dettero prova di cosa s´intenda per repubblica islamica, all´orrendo massacro protratto si per anni in Algeria, fino alle migliaia di innocenti dilaniati oggi dai kamikaze in Iraq. Una ecatombe tutta araba, compiuta e voluta da altri arabi. Solo un euro centrismo accecato (o il fanatismo bushiano) può impedirne la percezione.
Questo è l´autentico fulcro dello "scontro di civiltà" che si svolge non tra "moderati" ed estremisti, come dipingono osservatori impreparati, ma tra le forze e una parte notevole dei popoli che seguitano a cercare un approdo del mondo islamico alla modernità, malgrado il fallimento del "socialismo dei colonnelli", che ebbe in Nasser il suo profeta, malgrado il fallimento successivo di classi dirigenti nazionaliste corrotte, malgrado la delusione che la rinascita sarebbe arrivata, dopo il tramonto del mito sovietico, dall´aiuto generoso dell´Occidente ed anche, diciamolo pure, malgrado il peso di spietate dittature militari, peraltro ferocemente laiche per tema dell´influenza religiosa. La risposta a tutto questo e alla frustrazione ingenerata sta nel ritorno alla spietatezza medievale ma anche alla purezza austera e solidale della legge coranica, al ripiegamento su una religione vissuta integralisticamente come norma quotidiana obbligante nei rapporti famigliari, sociali e politici. Con una accettazione piena delle dottrine militari derivanti da una lettura cristallizzata del Libro sacro, compreso il sacrificio della vita propria e altrui, le condizioni teologiche che differenziano una tregua da una pace duratura. E così via. La modernità e i suoi aspetti molteplici, dalla condizione della donna alla separazione dei poteri fino alla libertà di stampa sono, in siffatta visione, il demoniaco frutto del peccato e dell´allontanamento dalla legge coranica. Di qui una lotta interna senza quartiere che si riflette all´esterno perché l´Occidente, l´America, Israele e l´Europa rappresentano il miraggio, lo specchio illusorio entro cui si riflette chi ancora è tentato da quelle lusinghe. Un miraggio, peraltro, vicinissimo, in epoca di mondializzazione e di rivoluzione tecnologica: a portata di tv, di internet, di e-mail; a portata di emigrazione. Quell´Occidente è odiato perché è irraggiungibile, malgrado sia a portata di mano; è odiato perché i suoi modelli di vita e di libertà sono, malgrado ciò, desiderati da milioni di islamici; è odiato, tanto più è vicino, vedi Israele, che rischia di esser sempre più vissuto come una profanazione blasfema se i palestinesi si avvolgeranno definitivamente nelle bandiere verdi del Profeta, piuttosto che nel vessillo nazionale innalzato da Arafat ed oggi affidato alle fragili mani di Abu Mazen.
Tale è, quindi, lo scontro di civiltà che tutti ci coinvolge, all´interno e fuori dell´Islam, dell´Europa, degli Stati Uniti. Occorre operare con fermezza e duttilità, comprensione delle altrui motivazioni ma anche consapevolezza di valori propri non barattabili, cultura della storia dei popoli e rifiuto degli schematismi manichei, perché esso non si concluda con vincitori e vinti ma con una compresenza difficile ma positiva.

E quella di Timothy Garton Ash:

DI FRONTE a me, nel soggiorno di casa mia, lo sceicco Omar Bakri Mohammed dice che il vignettista danese che ha insultato il profeta andrebbe processato da un tribunale islamico per "essere giustiziato secondo le norme islamiche". Ovviamente il religioso islamico di origine siriana non è fisicamente seduto nel mio soggiorno, ma appare sullo schermo televisivo, in diretta da Beirut, dove l´ambasciata danese è stata appena devastata dai dimostranti. Questo rende la minaccia di morte solo appena un po´ meno aggressiva. Mettetevi nei panni di quei vignettisti danesi.
Per SECOLI è valsa una regola di coesistenza tra civiltà. Diceva "A Roma, fa´ come i romani". La globalizzazione l´ha insidiata. A causa delle migrazioni di massa popoli e culture si sono fisicamente mescolati. Roma non è più solo Roma, è anche Tunisi, il Cairo e Tirana. Birmingham è anche il Kashmir e il Punjab, mentre Londra è il mondo intero. A causa dei mass media mondiali non esiste più un´offesa locale o un´intimidazione locale. Tutto può arrivare a tutti. Le culture rivali cercano di diffondere le proprie norme in tutto il globo: George W. Bush lo fa per la democrazia in stile occidentale, Papa Benedetto XVI per il cattolicesimo, Omar Bakri Mohammed per la sharia.
Come dovremmo vivere in questo nuovo mondo coraggioso? In che modo possiamo restare liberi? Come la maggior parte dei miei amici nel corso dell´ultima settimana sono stato tormentato da questi interrogativi. Sentiamo che si tratta di un momento determinante per tutti coloro che vivono in Europa, e sappiamo che non esistono risposte semplici. Il male minore sarà un doloroso compromesso tra il diritto universale alla libertà di parola, l´ossigeno di tutte le altre libertà, e la necessità di autoimporci delle limitazioni in un mondo così eterogeneo.
Una cosa però so per certo: la violenza, o la diretta minaccia di violenze del genere di quelle viste negli ultimi giorni, è totalmente ingiustificata in risposta alla pubblicazione di qualsiasi parola o immagine. Questa è la prima cosa da dire. Mi ha rattristato il fatto che i commentatori e i politici britannici, in particolare di sinistra, abbiano esitato a lungo prima di affermarlo chiaramente o abbiano sentito l´esigenza di dire prima altre cose. Mi ha rattristato inoltre, se pur non sorpreso, la debole reazione dell´Ue all´assalto criminale all´ambasciata danese in Siria, a quanto sembra consentito, se non attivamente incoraggiato dal regime siriano. Avremmo dovuto dire che bruciare la bandiera danese equivale a bruciare la nostra bandiera. Perché non sono stati ritirati immediatamente da Damasco, in segno di protesta, tutti gli ambasciatori dei paesi Ue?
La violenza o la minaccia diretta di violenze – come i cartelli dei dimostranti di Londra con su scritto "Decapitate chi insulta l´islam" – è moralmente ingiustificata e, giustamente perseguibile penalmente. È giusto che Abu Hamza, il demagogo colmo d´odio un tempo attivo nella moschea di Finsbury Park a Londra, sia stato condannato per il reato di istigazione all´omicidio. Quelle vignette danesi erano offensive, forse persino ingiuriose, e di conseguenza non ero personalmente favorevole a che fossero ripubblicate in vari quotidiani europei, ma non costituivano una minaccia nei confronti di nessun particolare gruppo o individuo. In nessun caso sono paragonabili all´atto di minacciare di morte dei vignettisti o di dare alle fiamme un´ambasciata facendo dei morti. E asteniamoci dalle insulsaggini trite sulla "violenza strutturale" o la "tolleranza repressiva" per favore.
Si è trattato di una violenza ingiustificata e criminale, ma forse è stata anche efficace. Si può guardare all´atteggiamento moderato che i media inglesi si sono autoimposti la scorsa settimana esaltando la responsabilità, la pragmaticità, la sensibilità multiculturale da tutti dimostrata. In alternativa si può dire che avevano paura che gli bruciassero le sedi. È stata saggezza condita di paura o piuttosto paura in veste di saggezza? Nel corso della storia la violenza spesso ha pagato, ma la lotta della civiltà contro la barbarie mira a garantire che non sia così.
Detto questo resta l´interrogativo di come arrivare a un compromesso tra libertà di parola e rispetto reciproco in questo mondo eterogeneo di cui la comunicazione istantanea è croce e delizia. Non bisogna rispondere al fuoco con fuoco, alle minacce con minacce. Il rischio in questo momento critico è che si inneschi una spirale perversa, con gli estremisti musulmani che danno fiato alle trombe degli estremisti anti-musulmani, come Nick Griffin del British National Party, formazione politica di estrema destra (come vorrei che fosse stato condannato un paio di giorni prima di Abu Hamza!) il cui linguaggio violento a sua volta spinge i musulmani più moderati ad appoggiare gli jihadisti e via così. Non condivido però quanto affermato da un recente articolo del Guardian, cioè che la Bbc ha sbagliato a mandare in onda una lunga intervista a Omar Bakri.
Penso invece che i media britannici hanno fatto esattamente il loro dovere permettendoci di ascoltare le voci degli estremisti musulmani contrapponendole però a voci di musulmani moderati e ragionevoli, nonché a quelle di non musulmani. Il programma televisivo della Bbc Newsnight ha ospitato un affascinante dibattito. Due donne musulmane britanniche hanno discusso pacatamente con l´estremista Anjem Choudary, del gruppuscolo al-Ghuraba, personaggio esaltato, demagogico ma, nello stile e nell´accento, riconoscibile a sua volta come britannico. Il programma ha fornito una piattaforma civile di confronto tra musulmani. Le cronache parlano diffusamente dell´esplodere della "rabbia musulmana" nel mondo ma molti musulmani britannici sono indignati tanto con i provocatori jihadisti quanto con i vignettisti danesi.
La tentazione cui troppi stanno cedendo è di interpretare tutto questo come un chiarimento tra Islam e Europa o Islam e Occidente (benché per una volta, gli Usa siano rimasti in qualche modo fuori dalla prima linea). È il modo in cui gli estremisti intendono inquadrare la discussione, come nel cartello agitato davanti all´ambasciata danese a Londra "l´Europa è il cancro, l´Islam è la risposta". Ma il vero spartiacque è tra moderati ed estremisti di entrambe le parti, tra uomini e donne ragionevoli e disposti al dialogo, musulmani o meno, da un lato e uomini e donne votati all´odio e alla violenza dall´altro. Non è la prima volta nella storia recente che i mezzi sono più importanti dei fini. In realtà i mezzi scelti determinano il punto di arrivo.
Questa non è una guerra e non sarà vinta o persa dall´Occidente. È una disputa interna all´Islam e all´Europa, ove già vivono milioni di musulmani. Se la ragione prevarrà sull´odio sarà perché la maggioranza dei britannici, dei francesi, dei tedeschi, degli spagnoli, degli italiani, degli olandesi, dei danesi e dei musulmani europei nel loro insieme prevarranno sulle loro minoranze estremiste. Noi europei non musulmani possiamo contribuire a questo esito attraverso la nostra politica all´estero, nei confronti dell´Iraq, dell´Iran, di Israele e della Palestina, e in patria, sull´immigrazione, l´istruzione, l´occupazione e così via. Possiamo inoltre contribuire manifestando sensibilità culturale e autolimitandoci, ma senza scendere a compromessi sui principi fondamentali di una società libera. Offrire ai musulmani europei civili piattaforme di libertà di parola affinché conducano il loro dibattito interno, come hanno fatto i media britannici questa settimana, è uno dei migliori servizi che possiamo rendere loro.

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