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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024

Giugno 2014

Donne in Israele






Donne in Israele


  • La legge israeliana riconosce l’eguaglianza dei sessi in una composita legislazione che garantisce eguaglianza nel mondo politico, nel mondo del lavoro e criminalizza atti di abuso sessuale.
La Union of Hebrew Women for Equal Rights in Eretz Israel, associazione femminista nell'Israele pre-statale.
  • L’attivismo femminista è iniziato negli anni ’20 del Novecento per garantire la partecipazione politica e sociale delle donne nell’Israele pre-statale, con valorosi contributi in politica e nella difesa militare.
Golda Meir
  • La presenza della donne in politica è paragonabile alla media europea con il 15-18% di parlamentari donne. Israele ha avuto un Primo Ministro donna negli anni ’70, Golda Meir.
  • Il servizio militare obbligatorio permette alle donne di servire in posizioni di potere e anche, soprattutto negli ultimi anni, nelle unità combattenti. L’esercito è considerato un laboratorio di eguaglianza in cui le donne al potere influenzano positivamente il ruolo della donna nella società.
La coalizione internazionale delle "agunot", donne in attesa del decreto di divorzio da mariti ostili.
  • I diritti delle donne sono notevolmente limitati dai tribunali religiosi, che hanno competenza in materia di diritto di famiglia. Le organizzazioni per i diritti delle donne si battono per la rappresentanza delle donne nei consigli religiosi e per i diritti delle donne nei tribunali religiosi.
  • La molestia sessuale è punita dalla legge. L’affare Katzav, ex Presidente dello Stato condannato e incarcerato per stupro, ha rafforzato l’attivismo femminista contro la violenza sessuale. Sono ora molto diffuse le campagne contro le molestie sessuali per aumentare la sensibilità del pubblico sui diritti delle donne.
  • Le donne che appartengono a gruppi minoritari soffrono di discriminazioni tipiche delle società tradizionali e patriarcali.
Adina Bar-Shalom, attivista haredi
  • Le donne haredi (ultra-ortodosse), che già hanno il peso di mantenere la famiglia, sono state oggetto negli ultimi vent’anni di una crescente radicalizzazioni dell’estremismo patriarcale, come ad esempio l’imposizione di codici di vestiario estremamente oppressivi, la separazione tra i generi negli autobus e nei luoghi pubblici, e l’esclusione dalla vita pubblica. L’attivismo femminista haredi contrasta queste tendenze e l’intervento della Corte Suprema di Israele ha spesso fermato le pratiche estremiste, compresa la separazione dei generi negli autobus.
  • Le donne arabe, e in particolare le donne musulmane, soffrono di pratiche repressive che le tengono ai margini della società. Gli omicidi d’onore sono diffusi nella società araba. Tra i beduini la poligamia, proibita in Israele, è segretamente praticata. L’istruzione superiore è spesso una via per l’indipendenza, protrando il matrimonio a una più tarda età e guadagnandosi la libertà di poter uscire di casa.
  • Le donne arabe sono attive in politica, quasi esclusivamente nei partiti arabi, apertamente ostili a Israele e alla narrativa sionista.
  • IC ha deciso d’intervistare due attiviste per i diritti delle donne. Naomi Ragen, scrittrice e giornalista, ebrea ortodossa, che ha guidato la battaglia contro la separazione dei generi negli autobus. Nadio Hilo, ex parlamentare per il Partito Laburista, leader nel campo dei diritti delle donne e della minoranza araba.





Intervista a Nadia Hilo



Ex parlamentare, ricercatriche presso l’Institute of National Security Studies e presso Il Sapir College, consulente sociale.

Come descrive lo status delle donne in Israele?
Quando si parla di donne in Israele bisogna considerare la loro comunità di appartenenza – ebree, arabe, religiose, laiche, cristiane, musulmane, druse o beduine. La loro identità culturale e sociale esercita un’influenza fondamentale sul loro status. In generale non posso dirmi soddisfatta della situazione attuale. Credo non ci sia ancora vera eguaglianza tra uomini e donne, né nel settore educativo né nel mondo del lavoro.

In cosa consiste l’ineguaglianza?
La situazione è molto complessa. Se si prende il mondo del lavoro, pubblico o privato, non c’è eguaglianza nei salari. Nel mondo dell’istruzione l’ineguaglianza è chiara: la gli studenti di laurea di base sono per la maggior parte ragazze, ma il loro numero diminuisce nella laurea specialistica, per esser ancora più esiguo nei dottorati e poi si arriva ad avere una maggioranza di uomini tra i ricercatori. In politica poi le donne non sono sufficientemente rappresentate.

Perché?
Credo che la prima ragione sia l’educazione in famiglia. Poi credo sia una questione sociale che rafforza l’ineguaglianza: per esempio, se un bambino a scuola vede che la maggioranza degli insegnanti è composta da donne, ma poi il preside è un uomo, si rafforza l’idea che le posizioni di potere sono “cosa da uomini”. Lo stesso vale per altre situazioni. Infine, credo sia anche dovuto a una certa costruzione sociale: l’intero sistema non permette alle donne di avere le stesse opportunità.

In Israele però c’è un’ampia legislazione che garantisce l’eguaglianza.
Certo, in Israele abbiamo molte leggi che garantisco l’eguaglianza, ma non è sufficiente. C’è bisogno di un cambiamento radicale nel mondo del lavoro. Alla fine sono sempre le donne che devono prendersi cura dei bambini, soprattutto nel periodo subito dopo la nascita. Quindi c’è bisogno di nuove politiche, che permettano le donne di lavorare da casa, che introducano più flessibilità nel lavoro. L’intero sistema scolastico e il mondo del lavoro non sono pensati per permettere alle donne di lavorare, da cui conseguono le ineguaglianze negli stipendi.

Accennava a una differenza tra donne ebree e arabe. Può parlare in particolare delle donne arabe, cristiane e musulmane?
Ci sono differenze tra musulmani e cristiani, nell’istruzione, nel mondo del lavoro e differenze culturali che influiscono sulla vita quotidiana. I musulmani sono più tradizionalisti e c’è una certa tendenza a tornare alla religione e alla tradizione. Ci sono differenze nel tasso di natalità: le donne musulmane di solito hanno più figli. Ma l’aspetto culturale è più importante perché le donne vivono in una società patriarcale dove l’uomo ha un ruolo fondamentale, con molto potere. In generale, le donne arabe soffrono di una triplice discimrinazione: come donne in generale, come cittadine arabe, cioè parte di una minoranza, e come donne arabe in una società patriarcale. Tutto ciò le rende il gruppo più debole nella società israeliana, più delle donne ebree e degli uomini arabi.
Quando dico che la legislazione è importante intendo dire che la legge dovrebbe propri imporre la presenza delle donne nel mondo pubblico. Per esempio, imporre che almeno il 40% dei parlamentari e dei membri dei consigli municipali sia composto di donne. Questo rende col tempo l’idea che le donne possono coprire posizioni di potere e in futuro non ci sarà più bisogno di simili leggi, come oggi nei Paesi scandinavi.

Di solito si sottovaluta l’importanza delle autorità locali; cosa comporterebbe una maggiore partecipazione delle donne?
Quando si parla di governo locale, s’intende educazione, sanità e altri servizi pubblici. Tutte questioni che le donne conoscono bene per la loro esperienza quotidiana e il loro contributo potrebbe essere rilevante se non rimanessero ai margini della società per via della tradizione.

In che senso?
Bisogna capire che la politica negli enti locali arabi è caratterizzata dalla tradizione araba, per cui sono le hamule, tribù o grandi famiglie, che dominano la politica locale e non i partiti. Le hamule decidono chi sarà eletto. Una volta le hamule avevano potere economico e influenzavano la vita dei loro membri, in quanto istituzione sociale principale nel mondo arabo. Le hamule non esistono più, non hanno più questa funzione, fatta eccezione per il mondo politico. Nei villaggi arabi, le hamule determinano i risultati delle elezioni mentre la politica nazionale non ha influenza alcuna. È anche una questione di ego pubblico: mettono qualcuno in una certa posizione non per le sue capacità o competenze, ma solo perché appartiene a una certa famiglia. In questo senso, è difficile pensare a come le donne possono entrare nella politica locale. Tuttavia, le ultime elezioni amministrative hanno mostrato un’alta partecipazione di donne arabe, con anche donne capolista, come a Kfar Kassem e Sakhnin. Anche se poche donne sono state elette.

Eppure le elezioni amministrative sono basate su campagne elettorali e partiti.
Sì è vero, ma la politica locale nei villaggi arabi segue le regole della società araba tradizione. Quindi ci sono partiti, ma sono soggetti alle norme sociali definite dalla hamula tradizionale che domina le elezioni e l’intero sistema di governo locale. È un sistema impenetrabile.

Ha appena menzionato che però ci sono state donne capolista di partiti arabi.
Se si considerano i casi specifici, c’è ancora molta strada da fare, e per questo credo che la presenza delle donne vada imposta, attraverso quote. Ma se si considera l’evoluzione storica dello status delle donne, allora si può dire che i cambiamenti rappresentano un successo. Il solo fatto che le donne siano in politica e partecipino alle elezioni in liste elettorali significa che la loro presenza nella politica è riconosciuta, che il pubblico accetta le donne, e questo è già un gran risultato.

Quindi crede che le cose stiano cambiando?
Certo ci sono segni di cambiamenti importanti che porteranno a una modificazione radicale della società. A questo proposito sono convinta che i nuovi media abbiano un ruolo fondamentale nella causa delle donne e di quelle arabe in particolare.

I nuovi media sono un fenomeno significativo, ma come servono la causa delle donne arabe?
Ci sono studi che indicano che la maggior parte degli utenti delle reti sociali e di internet sono arabi. In più le donne sono dominanti nei blog, nei network e nei siti di informazione.

Perché?
Anzitutto la libertà delle donne arabe è più limitata e quindi sono meno esposte alla vita sociale: ci si aspetta che restino a casa, mentre gli uomini sono più liberi di vivere in società e da loro ci si aspetta che vadano a lavorare da giovani. È per questo che ci sono più donne che uomini nelle scuole arabe, perché questo permette loro di uscire di casa e di posticipare l’età del matrimonio e spesso è l’unica scelta. Allo stesso modo, attraverso i new media, le donne si possono esprimere liberamente e internet è un mezzo potente per superare le barriere sociali che le tengono ai margini.

Intende le donne attiviste nella rete?
Le donne si stanno facendo sentire e ci sono casi in cui sono diventate leader. Per esempio, è stata una donna beduina a condurre le proteste contro la rilocazione dei beduini nel sud di Israele. Ed ha iniziato le campagne attraverso le reti sociali. Significa che i new media stanno dando nuovi mezzi e nuove opportunità alle donne in società tradizionali.

Come vede il futuro?
Il processo è lento e la strada verso l’eguaglianza è molto lunga. Ma i nuovi media non possono esser fermati e le donne sono dominanti nell’apportare cambiamento. In questo senso credo che l’educazione rimanga il primo approccio per il cambiamento sociale ed economico. A questo proposito l’istruzione superiore è fondamentale e ci sono molte donne laureate e con dottorati, ma il loro potenziale non è sfruttato. Ci sono competenze, talento e aspirazioni, ora si deve solo fare qualcosa di tutto questo. Le cose stanno cambiando lentamente anche nel mondo del lavoro, ma gli ostacoli sociali, come i trasporti, le abitazioni e gli altri problemi nei servizi sociali hanno più impatto nella comunità araba rispetto al resto della popolazione.

Parliamo ora del suo lavoro come membro della Knesset.
Mi sono sempre dedicata al cambiamento sociale, in particolare ai diritti dei bambini e delle donne. La giustizia sociale e l’eguaglianza della minoranza araba mi hanno sempre guidato. Ho iniziato come assistente sociale e leader locale nella mia comunità a Giaffa e poi sono diventata parlamentare. Ho presentato circa 80 proposte di legge e 11 sono passate e sono state adottate. Una di queste ha stabilito l’Accademia per la Lingua Araba, per lo studio e la diffusione della lingua e della letteratura araba. Un’altra legge riguarda lo sfruttamento sessuale dei bambini, soprattutto per quanto riguarda il cyber sex e la pedopornografia. Assieme ad altri parlamentari di vari partiti, compresa Sheli Yachimovitch (Laburisti) e Gideon Saar (Likud), abbiamo fatto approvare una legge per l’estensione dei permessi maternali fino a 14 settimane. Altre proposte non sono passate, come la proposta di legge sulle quote rosa in parlamento e nei consigli municipali, incentivi ai partiti perché includano le donne nelle liste elettorali.

Lei è stata eletta come membro del Partito Laburista. Perché non in un partito arabo?
Sono sempre stata attiva in politica; fin da giovane sono stata un’attivista e un’assistente sociale a Giaffa. Ma non ero attiva nella politica di partito, quanto più nella politica locale. Mi ricordo le prime attività per avere sovvenzioni per le giovani coppie e per gli asili nido. Ho iniziato da sola con altri amici e colleghi, e dopo qualche anno c’era già una rete di asili nido! Poi ho sono stata rappresentante di categoria degli assistenti sociali nei forum professionali. Ho sempre accettato le sfide e spesso sono stata la prima a portare cambiamenti in vari settori.

Com’è arrivata alla politica di partito?
Nel 1998 c’è stata la prima lista elettorale di Giaffa che ha partecipato alle elezioni municipali di Tel Aviv. Era una lista legata al partito Meretz (socialista), e comprendeva arabi ed ebrei. Ha preso due seggi al consiglio municipale. Mi hanno offerto di aprtecipare alle elezioni, ma avrebbe significato lasciare il mio lavoro e dedicarmi alla politica senza uno stipendio. Mio marito ed io eravamo una giovane coppia e non me la sono sentita di lasciare il mio lavoro.
È stato con il processo di Oslo e con il trattato di pace che ho deciso di entrare nella politica nazionale come membro del Partito Laburista, di cui condividevo visioni e programma politico. Ho deciso di partecipare come membro di lista a tutti gli effetti, non per i posti che i partiti riservano agli arabi. Credevano tutti che fossi pazza e continuavano a dirmi: “sei pazza! Non hai possibilità! È impossibile!” Ma io ho continuato per la mia strada perché volevo partecipare alle elezioni come eguale tra gli eguali, come Rabin e come Dalia Itzik. Altri mi dicevano con tono compiacente “dimostri coraggio”, e l’ho presa come una sfida. E il mio successo ha dimostrato agli ebrei israeliani che sono uguale a loro e alle donne arabe che anche loro possono. Non è stato semplice, ma ho deciso di non scender a compromessi con l’eguaglianza, che per me è un valore assoluto.

Come considera l’integrazione delle minoranze?
Israele sta perdendo un’opportunità. Oltre alla sicurezza c’è la sfida egualmente importante dell’integrazione degli arabi, dello sviluppo delle comunità arabe, e secondo me lo Stato non sta affrontando la questione in maniera giusta. Il divario socio-economico è grande, ma il problema è che la comunità araba non sopporta più la condizione di inferiorità.
I miei genitori sono nati prima della fondazione dello Stato nel 1948, e hanno un atteggiamento dimesso verso le istituzione, non sono coinvolti in politica. La mia generazione è nata dopo il 1948 e noi abbiamo un altro atteggiamento, siamo attivi ma moderati. Mi ricordo quando mi sono iscritta all’università mio padre mi pregava di stare distante dalle organizzazioni studentesche, temeva che mi sarei messa nei guai con la mia indole di attivista, per via del timore e del sospetto verso le istituzioni tipico della sua generazione.
Ma la nuova generazione non è disposta a scendere a compromessi su nulla che riguardi l’eguaglianza. Sono nati in una democrazia, ne conoscono i meccanismi e non sono disposti ad accettare uno status d’ineguaglianza. Sono una generazione israeliana con tutto quello che questo significa.
Ci sono anche altri fattori, come la questione della pace coi palestinesi, la mancanza di una politica chiara per quanto riguarda gli arabi. E c’è anche una crescente radicalizzazione di certi movimenti anti-arabi. Pensi a quanti episodi di vandalismo anti-arabo ci sono stati negli ultimi mesi: la polizia sta facendo veramente qualcosa? La polizia trova sempre chi vandalizza la bandiera di Israele ma non trova chi vandalizza una casa araba? E il problema più grave riguarda chiese e moschee, che sono la questione più sensibile. Se continua così, non so cosa potrà essere in futuro.

Ma è comunque ottimista!
Certo, sono ottimista e alle volte mi chiedo come mai, ma è quello che sono. Forse è anche l’ambiente in cui vivo che mi rende ottimista, come arma per andare avanti e combattere per il cambiamento. I più radicali si fanno sentire più di ogni altro, ma in generale la gente vive bene. Abbiamo bisogno di nuove leggi e politiche economiche, per garantire una vera eguaglianza di opportunità alle donne e per integrare il settore arabo. L’integrazione porterà solo a un altro sviluppo dell’economia e della società israeliane. Ed è tanto importante quanto la pace!





Intervista a Naomi Ragen



Scrittrice e giornalista

Naomi Ragen, Lei è scrittrice, giornalista e anche attivista per i diritti delle donne. Com’è iniziata la sua attività sociale?
Il mese scorso ero in sinagoga, quando una ragazza si è avvicinata presentandosi come studentessa di giurisprudenza. Mi ha raccontato che uno dei casi che sta studiando reca il mio nome: Naomi Ragen v. Ministry of Transportation and Egged Bus Company.
È stata una sentenza storica della Corte Suprema del 2011, su un caso iniziato nel 2007 contro la società di trasporti Egged e il Ministro dei Trasporti. Allora non avevo intenzione di immettermi in una battaglia legale; sono salita su un autobus vuoto a Gerusalemme, dove vivo: era la prima fermata della linea 40, nel centro di Gerusalemme, che porta direttamente nel quartiere dove vivevo allora. Mi sono seduta in un posto singolo, non in uno doppio, perché attraversando dei quartieri ultraortodossi non volevo che un uomo si sentisse a disagio dovendosi sedere vicino a una donna, cosa cui non sono abituati. Come donna religiosa rispetto i loro costumi, ma non sapevo che la mia sensibilità non sarebbe stata ricambiata! Un altro passeggero, appena salito in autobus, mi si avvicina e mi dice “Lei non può sedersi qui, deve sedersi in fondo”. L’ho guardato esterrefatta e gli ho risposto: “Mi scusi?! È un autobus pubblico, non sto disturbando nessuno. La ringrazio, ma mi siedo dove voglio”. Non mi sono resa conto che stava in realtà cercando di aiutarmi, perché altri passeggeri si sono avvicinati, molto meno gentili. Specialmente un grasso uomo ultraortodosso, proteso verso di me e sudandomi addosso mi ha aggredita verbalmente urlandomi “va’ infondo all’autobus”.
Mi sono sentita come in una situazione surrealistica, perché non sapevo ci fossero regole particolari da rispettare a bordo dell’autobus e in quell’istante non potevo lasciar correre. Mi sono sentita come Rosa Parks nella lotta dei neri nel sud degli Stati Uniti. “È un autobus pubblico e mi siedo dove voglio”, ho ripetuto con forza. Durante tutto il viaggio sono stata aggredita verbalmente e, a un certo momento, ho persino temuto che mi avrebbero messo le mani addosso per spintonarmi in fondo all’autobus – sono ancora convinta che non l’abbiano fatto perché non possono avere un contatto fisico con una donna che non sia loro moglie o parente. Sono rimasta ferma al mio posto e l’ho chiamato tzaddik (santo) in fronte a tutti chiedendogli di portarmi i riferimenti giuridici ebraici secondo cui non sarebbe permesso a una donna di sedersi tra uomini in un autobus, e di non disturbarmi oltre.
Scesa dall’autobus sono scoppiata a piangere e la prima cosa che ho fatto è stata telefonare alla compagnia di trasporti Egged chiedendo se c’erano delle regole particolari in alcune linee che imponevano alle donne di sedersi dietro. La compagnia ha negato con forza che esistesse un regolamento di questo tipo, ammettendo che fosse tutto volontario. Non paga, ho scritto una lettera di protesta, cui la compagnia ha risposto formalmente senza riferirsi alla questione che avevo sollevato. Ho quindi scritto un articolo per il Jerusalem Post sul fenomeno sempre più preoccupante delle linee in cui uomini e donne viaggiano separati.
Qualche tempo dopo ho ricevuto una lettera dal Centro per il Pluralismo Religioso, che appartiene al movimento dell’ebraismo riformato, in cui mi proponevano di unirmi a una causa che volevano muovere al Ministro dei Trasporti e alla Compagnia Egged assieme ad altre donne che avevano avuto simili esperienze. È risultato che la compagnia Egged aveva un accordo con le comunità haredi su come gli autisti si sarebbero dovuti comportare nelle linee in cui è stata imposta la politica di segregazione dei sessi tra i passeggeri. Abbiamo anche tentato la via delle negoziazioni con il Ministro dei Trasporti, ma senza veri risultati perché in realtà era a favore dei haredim che allora facevano parte della coalizione al governo: dopo aver nominato una commissione ministeriale, che proponeva di mettere fuorilegge la pratica di segregazione dei sessi negli autobus, il Ministro si è rifiutato di seguire le direttive, così abbiamo portato il caso alla Corte Suprema che con nostro piacere si è espressa in nostro favore.
Nella commissione c’era anche un giudice religioso, che nella sentenza ha raccontato una storia di un rabbino che, vedendo una donna salire in autobus, ha chiesto al suo amico seduto vicino a lui chi dei due avrebbe ceduto il posto alla donna. E questa è stata la risposta della Corte Suprema all’idea dei haredim secondo cui uomini e donne non possano sedersi vicini in un autobus. Ora tutti gli autobus a Gerusalemme hanno un segnale che ricorda la libertà di ogni passeggero di sedersi dove più gli aggrada, esclusi i posti riservati per invalidi e anziani, e ogni interferenza è punita con la legge penale. Questa decisione ha arginato l’estendersi del fanatismo religioso e delle interpretazioni della legge ebraica formulate dai haredim che non sono accettate nemmeno dal pubblico religioso.

Nei suoi libri e nei suoi articoli Lei parla spesso del mondo haredi ed ha ricevuto critiche per le sue posizioni a riguardo, perché?
Quando ho incominciato ha scrivere dei haredim ho in realtà iniziato un nuovo genere letterario: nessuno scriveva prima della società ebraica ultra-ortodossa e infatti un agente letterario israeliano ha all’inizio rifiutato di tradurre i miei libri in ebraico – io scrivo in inglese, la mia lingua madre. In seguito la casa editrice israeliana Keter mi ha proposto di pubblicare il mio secondo libro “Sotah”, che è diventato un best-seller per 93 settimane! Ho ricevuto molte lettere da israeliani laici in cui mi ringraziavano per aver avvicinato il mondo haredi ai lettori non religiosi, per aver dato voce a una società che i laici tendono a odiare, diventando meno ostili.

Il pubblico haredi come ha reagito?
Al contrario, gli ultra-ortodossi che hanno letto il libro si sono rivolti a me con toni di critica perché ho osato scrivere della loro società, convinti quindi che abbia in un qualche modo violato la loro privacy. Qualsiasi cosa si scriva di loro, che sia positiva o negativa, è interpretata come una violazione del loro mondo. Come scrittrice, credo invece che si debba scrivere di ciò che si conosce e di ciò che si vuole; non ho mai accettato l’idea che la società haredi sia inviolabile. Inoltre penso che i miei libri che trattano della società haredi siano bilanciati negli aspetti positivi e in quelli negativi. Gli ultra-ortodossi non sono abituati a leggere libri realistici. Hanno i loro giornali, la loro letteratura, che passano attraverso una censura che fa trapelare solo gli aspetti positivi. Non c’è critica, e quindi come puoi essere una persona migliore se non hai una luce che illumina la società? In questo senso sono convinta che la letteratura debba servire anche da critica alla società, e per questo ho scritto quel libro, per parlare delle cose positive e di quelle che hanno bisogno di essere corrette.

I laici accusano la società haredi per una progressiva estremizzazione dei costumi spesso senza prescrizioni nella legge ebraica e nuovi anche per la tradizione. Quali sono a suo avviso le cause di questo fanatismo crescente negli ultimi vent’anni?
È una buona domanda, cui ho pensato spesso. Penso anzitutto che la commistione tra religione e politica in Israele abbia portato le figure politiche nel mondo ultraortodosso a favorire l’estremismo per trovare più consensi nella società, nella convinzione che più estremista ti dimostri più appari devoto alle prescrizioni religiose e questo ha causato una corsa all’estremismo.
C’è un’altra ragione che secondo me spiega il fenomeno – in molti si stupiscono di quello che sto per dire. Sono convinta che il crescere del fanatismo islamico e della legge islamica abbia influenzato gli estremisti nella religione ebraica: un sistema patriarcale mostra a un altro sistema patriarcale fino a che punto ci si può spingere il potere dell’uomo di controllare la vita delle donne. Guardando alla società islamica e a cosa sono capaci, credo che gli estremisti nella società ultra-ortodossa abbiano tratto spunto e adottato alcune norme sociali.
Inoltre non bisogna dimenticare che l’estremismo può essere spiegato come conseguenza all’emancipazione delle donne ultra-ortodosse, che studiano materie laiche, per avere dei buoni lavori per poter mantenere la famiglia. Questo può aver causato il risentimento degli uomini verso le donne, istruite, con buone posizioni, che provvedono a mantenere la famiglia: per cui l’estremismo è un modo di tenere le donne al loro posto, come reazione al timore che l’uomo possa perdere la proria posizione di superiorità. I marciapiedi separati, gli autobus di segregazione, le prescrizioni su cosa si può indossare e cosa è proibito, le nuove compagne contro le parruche, che le donne ultra-ortodosse ashkezite vestono da sposate, perché ritenute ormai poco modeste non potendo distinguere tra una parrucca e dei veri capelli. Oppure gli episodi in cui tirano candeggina alle donne che non sono vestite “modestamente” secondo schemi sempre più rigorosi.
Il messaggio è chiaro: “donna, puoi avere un’istruzione, un buon lavoro, puoi mantenere la famiglia, ma non pensare di essere meglio di me uomo e non immaginare di poter essere uguale a me o di poter avere alcun tipo di controllo; io ti dico quello che devi fare e non dimenticarlo mai”. Questo atteggiamento ha portato a un fanatismo estremista.
Che gli uomini studiassero e le donne lavorassero era un’abitudine europea già nel secolo scorso; c’è anche una preghiera che gli ebrei religiosi cantano il venerdì sera, Eshet Hayil (donna virtuosa), che è dal libro dei Proverbi della Bibbia, in cui si dice che la donna è come “e navi di un mercante, da lontano procura profitto”: quindi il ruolo di una donna virtuosa è di mantenere la famiglia, mentre gli uomini sono stati sempre rispettati nel loro ruolo di studiosi della Torah. Ma non c’è mai stata la volontà di esimersi da qualsiasi sforzo nel mantenere la famiglia o nel procurarsi un lavoro per far vedere che l’uomo ha il controllo sulla donna.
Ora le donne non accettano questo tipo di ruolo passivamente, e ormai è opinione comune che gli uomini debbano lavorare, anche perché molti di loro in realtà non studiano nelle yehsivoth. Ha detto che questa è un’interpretazione haredi di come si debba vivere secondo la tradizione ebraica.

Ora chiedo a Lei, da donna ebrea religiosa, qual è il ruolo della donna nella società ebraica?
Molto tempo fa stavo studiando il primo libro della Bibbia, la Genesi: dopo il peccato, D-o ha detto ad Adamo che avrebbe sudato per guadagnarsi il pane e ha punito la donna sottomettendola all’uomo. Mi hanno insegnato che questa è una punizione, mentre con l’avvento del Messia ci sarà eguaglianza. Quindi la mia convinzione è sempre stata che uomini e donne sono stati creati uguali, secondo la tradizioni una creatura che era uomo e donna insieme, successivamente divisi in una donna e un uomo, eguali.
Nella legge ebraica ci sono alcune responsabilità che la donna non è obbligata a portare a termine perché sono prescrizioni legate al tempo, ossia obblighi da portare a termine in precisi momenti. Io l’ho sempre accettato: da madre di quattro figli posso dire che non ci si può aspettare da una donna di pregare entro le 9 o 10 del mattino massimo, dopo che magari tuo figlio non ha chiuso occhio tutta la notte; non ci si può aspettare da una donna che deve prendersi cura di un figlio di portare a termine delle prescrizioni che limitano il suo tempo. Per questo ho sempre ritenuto che fosse una saggia decisione escludere le donne da queste prescrizioni e non un segno d’inferiorità.
C’è un movimento femminista che propugna l’eguaglianza religiosa anche nelle preghiere, nelle sinagoghe, nei rituali, volendo fare tutto ciò che gli uomini fanno. Io personalmente non sento il bisogno di fare alcuna di tutte queste cose, sono della vecchia scuola, e credo che il modo delle donne di pregare e gli obblighi religiosi sulle donne non mi fanno sentire inferiore – ne ho abbastanza di doveri religiosi e non ne cerco di sicuro altri! Ma c’è per esempio una preghiera che gli uomini dicono il mattino: “grazie D-o che non mi hai fatto donna”, e questo sì mi offende; e l’alternativa femminile è “grazie D-o per avermi reso ciò che sono”. Qualche anno fa ho deciso spontaneamente di introdurre un’altra frase: “grazie D-o per avermi fatto donna e per avermi reso ciò che sono”.
In casa le decisioni che riguardano la legge ebraica da applicare a questioni pratiche le prende mio marito, che ha studiato molto più di me la legge. Non mi mette in una posizione inferiore, ma sono felice di avere in casa qualcuno che conosca la legge che possa quindi prendere le decisioni.
Tuttavia ritengo sia molto importante che le donne studino il Talmud e ritengo sia fondamentale che vengano coinvolte nell’interpretare la legge ebraica, in particolare per quanto riguarda i diritti delle donne nel matrimonio e nelle pratiche di divorzio. Credo che in questo ambito si debba mutare radicalmente il modo in cui la legge ebraica è intepretata e applicata, per ora in maniera completamente pregiudizievole dei diritti delle donne. Ci sono ora donne che hanno studiato e sono avvocatesse nelle corti religiose e la loro presenza è stata fondamentale nel cambiare la legge. Ha parlato dei problemi delle donne nelle corti religiose, che rappresenta uno dei maggiori problemi in Israele, che è comunque una democrazia liberale.

Come vede i diritti delle donne in Israele, quale stato ebraico e democratico?
Credo che la commistione tra religione e politica in Israele sia dannosa ed è la peggiore cosa sia capitata alla religione ebraica in migliaia di anni, il fatto cioè che la legge religiosa sia legata alla politica. Ci sono rabbini nominati non per la loro erudizione, bensì per le loro conoscenze politiche, e questo è inaccettabile. Ci sono anche giudici nelle corti rabbiniche e rabbini capo in Israele nominati dal mondo politico: in Israele il diritto di famiglia è gestito dai tribunali religiosi e questo porta a una situazione negativa per cui gli ebrei devono rivolgersi a un tribunale rabbinico per poter dissolvere un matrimonio – mentre altre questioni sono gestite dai tribunali civili, come la custodia dei figli. Ora se si tiene conto che i giudici dei tribunali rabbinici sono nominati dal mondo politico, spesso si trovano nelle corti degli uomini di un’ignoranza spaventosa che potrebbero far parte di un tribunale iraniano per come considerano le donne.
Per esempio, secondo la legge ebraica si può costringere un uomo a concedere il divorzio – Maimonide cinquecento anni fa diceva che bisogna picchiare un uomo che si rifiuta di concedere il divorzio alla moglie finché non si convince a farlo. Oggi però nei tribunali rabbinici, salvo qualche eccezione, i rabbini non fanno appello al potere di costrizione nemmeno quando la corte decide che il marito deve divorziare. In Israele si può mettere un uomo in prigione nel caso si rifiuti di concedere il divorzio, ma solo un rabbino a Haifa ha fatto ricorso a questo potere.
Una donna che non ha ricevuto il divorzio è chiamata agunah, e non può sposarsi, nel caso avesse dei figli sarebbero considerati secondo la legge ebraica mamzerim, ossia figli illegittimi impossibilitati a sposarsi all’interno dell’ebraismo. È una punizione terribile non potersi risposare. Quindi credo che i diritti delle donne in israele siano limitati severamente dai punti di contatto tra religione e politica che danno un potere alle corti rabbiniche che non si meritano proprio perché sono nominate dal mondo politico. Questa situazione non ha nulla a che vedere con la religione, e ciononostante controllano la vita dei cittadini in maniera sostanziale, il che è terribile per tutto il mondo ebraico.

Ha descritto una situazione critica per le donne in Israele. Ma Israele è anche una democrazia e Lei condivide quest’opinione.
È una situazione che esiste parallelamente a Israele come democrazia, in cui comunque non c’è completa eguaglianza tra uomini e donne. Abbiamo donne in politica, Golda Meir è stata Primo Ministro, ma in generale se si paragona il numero di donne in posizioni di potere in Israele ad altri stati occidentali, Israele è ancora indietro.

Quali stati per esempio?
Norvegia, Svezia; benché nemmeno gli Stati Uniti possano competere con quegli standard. Penso però che le donne stiano meglio negli stati Uniti che in Israele. Israele è indubbiamente una democrazia liberale, e le donne possono accedere a tutte le sfere lavorative, come anche l’hi-tech per esempio, eppure c’è quest’idea tradizionalista secondo cui le donne dovrebbero rimanere a casa a prendersi cura dei bambini.
Molti anni fa, quando cercavo lavoro, ricordo di essere andata a un colloquio in cui mi hanno chiesto se avevo dei figli e come avevo intenzione di conciliare la vita famigliare col lavoro: una simile domanda in America avrebbe potuto essere l’inizio di una causa per discriminazione. Per quanto riguarda la discriminazione sessuale e la questione delle donne, sicuramente Israele non ha ancora raggiunto i livelli degli Stati Uniti. Ma stiamo sicuramente facendo progressi.

In cosa vede dei miglioramenti nella condizione delle donne?
Credo che la prima ragione sia dovuta all’arruolamento delle donne nell’esercito. Proprio perché le donne fanno l’esercito assieme agli uomini e ricoprono ruoli di potere, la loro condizione migliora.
Mio figlio quando ha fatto il servizio militare aveva un comandante donna, e proprio l’esercito è un posto in cui si raggiunge l’eguaglianza perché le donne devono servire nell’esercito, salvo alcune eccezioni per le donne religiose che possono optare per il servizio civile. In questo modo le donne non solo lavorano al fianco degli uomini, ma ricoprono posizioni di potere e responsabilità. Credo sia una condizione unica, che non esiste in altri Paesi sviluppati. Per il futuro vedo sicuramente uno scenario positivo.

Ha parlato di attivismo femminile: l’attivismo sociale è un tratto tipico della società israeliana, come la volontà di cambiare.
Sono d’accordo. Ma per quanto riguarda le attiviste donne, spesso non si concentrano sui diritti delle donne, bensì sono attive in movimenti politici in altri ambiti. Per esempio, c’è stato un movimento molto importante di donne che si sono mobilitate per il ritiro dal Libano: il “Four Mothers Movement” (in ebraico arba’ imahot, dalle quattro matriarche della Bibbia), iniziato da quattro donne, ma non aveva nulla a che vedere con i diritti delle donne, bensì operavano perché i loro figli non dovessero combattere in Libano.
Credo che in Israele il problema principale sia la questione della sicurezza che porta l’attivismo sociale a concentrarsi sulle questioni di vita o di morte, per cui i diritti delle donne nel lavoro passano in secondo piano. Quando tuo figlio serve nell’esercito e tua figlia sta per arruolarsi, o quando vivi a Sderot sotto i missili lanciati da Gaza, le priorità sono sicuramente diverse da un Paese che vive in pace dove puoi pensare in primo luogo al diritto all’eguaglianza nei posti di lavoro.

Passano in secondo piano ma non sono questioni trascurate.
Le faccio un esempio. Israele è un Paese dove il presidente dello Stato è stato accusato di molestie sessuali. La questione non è stata messa a tacere; al contrario, Moshe Katzav è stato portato in tribunale, ha subito un processo al termine del quale è stato condannato e messo in prigione. È un segnale evidente di come le cose stiano cambiando per il meglio: la vecchia scuola degli uomini che ricoprono posizioni di potere e possono trattare le donne come più gli pare è ormai finita! In più, dopo l’affare Katzav, le molestie sessuali sono divenute non solo un argomento al centro del dibattito in ogni luogo di lavoro, ma le donne si sentono protette dal sistema e sono più disposte a utilizzare i mezzi legali, a denunciare e a combattere per i loro diritti. Indubbiamente è stata una grande vittoria delle donne.

Ha parlato dell’attivismo sociale delle donne in movimenti politici e per i diritti umani. L’idea che si ha di Israele da questi movimenti è spesso di un posto non piacevole per le donne. Cosa ne pensa?
Non direi che Israele le donne non vivono bene. Mi sono trasferita qui dagli Stati Uniti; ho due figlie e sei nipotine, tutte cresciute in Israele. Godono di eguaglianza nel sistema scolastico; partecipano a movimenti giovanili in cui ragazzi e ragazze sono egualmente presenti e tutte sono cresciute con l’idea che il mondo è lì per loro e che possono fare ciò che vogliono. Nel quotidiano le donne possono certamente partecipare alla vita democratica come membri della società con eguali diritti, e il fatto che le donne siano attive in organizzazioni e movimenti politici di destra e di sinistra è un’altra prova del fatto che le donne sono rispettate e che possono perseguire i propri obiettivi sociali e politici, potendo fare la differenza.
Credo che Israele sia un posto meraviglioso per le donne, perché si può avanzare e apportare cambiamento in ambiti così diversi, dovuto anche al fatto che la popolazione è giovane e aperta al cambiamento, mentre in società meno giovani il cambiamento è più difficile.
L’intera idea di Israele è la costruzione di un nuovo Paese e puoi partecipare a questa costruzione come donna apportando cambiamenti significativi. Se guardo a quello che ho fatto io, sono andata in tribunale contro il Ministro dei Trasporti e ora ogni volta che prendo un autobus vedo un segnale che ricorda il diritto di ciascun passeggero a scegliersi il proprio posto a sedere, il che è una grande soddisfazione. In fondo, chi sono? Sono una scrittrice, non sono una politica, sono una madre e una nonna eppure sono stata capace attraverso l’attività delle associazioni e attraverso i tribunali israeliani di cambiare le cose, un cambiamento che ora è studiato nelle facoltà di giurisprudenza del Paese.
Penso che Israele rappresenti un esempio per le donne in tutto il mondo: una giovane e vivace democrazia dove si può cambiare in meglio anche se sei una persona comune come me, senza agganci né posizioni di potere. E la cosa più emozionante è che qui puoi vedere gli effetti del tuo attivismo mentre ancora sei in vita.

Nonostante Israele non abbia molte donne in posizioni di potere, come succede in molti Paesi occidentali, definirebbe Israele una democrazia?
Certamente, e credo Israele debba essere considerata una democrazia al pari di altri Paesi occidentali, in particolare se si guarda al resto del Medio Oriente, dove le società sono patriarcali, dominate dalla religione e senza alcun tipo di garanzia di libertà. È facile essere una democrazia in Svezia con dei vicini come Norvegia e Danimarca che sono a loro volta democrazie. Ma quando sei circondato da Paesi che non riconoscono nessun diritto fondamentale ai loro cittadini e devi ogni giorno pensare a sopravvivere per proteggere la vita dei tuoi cittadini, il fatto che si sia riusciti qui a costruire una democrazia vivace è a mio avviso assai meritevole. Gli sforzi per garantire una società democratica in queste condizioni sono straordinari.

Ha detto che Israele è un esempio di come le donne possono cambiare le cose in una società; è il suo messaggio alle donne nel mondo?
Alcuni anni fa sono stata invitata a Strasburgo a una conferenza internazionale su “religione e violenza domestica”, come rappresentante di Israele. Ho incontrato donne dalla Giordania, Arabia Saudita, Afghanistan, e da tutti gli Stati europei. Eravamo sedute vicine discutendo dei nostri problemi e di come poter cambiare le cose per avere eguaglianza e per mettere fine alla violenza domestica.
È stato sorprendente apprendere come avessimo molte cose in comune, benché i problemi che le donne vivono in Giordania e in Arabia Saudita sono molto più gravi che in altri Paesi. La rappresentante della Giordania ha parlato dell’alto numero di delitti d’onore nel suo Paese, la rappresentante dell’Arabia Saudita ha parlato della custodia dei figli in caso di divorzio, automaticamente affidati al padre e la donna è esclusa dalle visite.
Il mio messaggio è: “donne unitevi!”. Bisogna superare le barriere politiche, perché ovunque nel mondo le donne soffrono di discimrinazione e violenza, e per questo sarebbe molto più efficace unirci in una battaglia comune che rimanere divise su considerazioni politiche che ci distraggono dai nostri obiettivi. È stato un incontro illuminante e sono ancora in contatto con una di loro, da un Paese che non ha relazioni diplomatiche con Israele.

Eppure la Commissione per l’Eguaglianza delle Donne dell’ONU non sembra essere così favorevole a una comunanza apolitica delle donne nel mondo, e anzi preferisce condannare Israele in maniera sistematica.
A quella riunione era chiaro che Israele aveva problemi di gran lunga minori rispetto a altri Paesi. Bambine date in sposa a uomini anziani nel mondo arabo, mutilazioni genitali femminili in Africa, delitti d’onore, limitazione alla libertà delle donne senza un tutore maschio in vari Paesi islamici, e l’ONU dovrebbe avere un ruolo più attivo nel contrastare queste pratiche che si abbattono su milioni di donne nel mondo invece che concentrarsi su una democrazia come Israele che fa di tutto per cambiare e raggiungere l’egualianza. È una disgrazia per l’ONU e dovrebbero vergognarsi.





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